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di Davide de Bari
La Corte ordina accompagnamento coatto.
Il pentito Geraci racconta la “missione romana” per uccidere Falcone

Era un’udienza particolarmente attesa quella di ieri al processo d’appello "Capaci Bis”. Davanti alla Corte d’Assise d’Appello sarebbe dovuto comparire l’ex poliziotto Giovanni Peluso, attualmente indagato dalla Procura di Caltanissetta come "compartecipe ed esecutore materiale della strage di Capaci” dopo le accuse a lui rivolte dall'ex agente penitenziario, ed oggi collaboratore di giustizia, Pietro Riggio.
Sentito lo scorso novembre come teste questi aveva raccontato: "Un ex poliziotto (Giovanni Peluso, ndr) mi ha confidato di aver partecipato alla fase esecutiva della strage Falcone si sarebbe occupato del riempimento del canale di scolo dell'autostrada con l'esplosivo, operazione eseguita tramite l'utilizzo di skateboard”.
Peluso, che ai magistrati ha già negato ogni coinvolgimento, ha deciso comunque di non presentarsi in aula.
"Mi è stato detto fino a due giorni fa che doveva essere qui. Ma fino a pochi minuti fa non si è ancora presentato al bunker” ha detto alla Corte ad inizio udienza il sostituto procuratore generale Antonino Patti, pronto in aula assieme alla Procuratrice generale Lia Sava.
Di fronte a questa "assenza ingiustificata" la Presidente Andreina Occhipinti, ha deciso di predisporre l’accompagnamento coatto.

La “missione romana”
L’udienza è poi proseguita con la deposizione del collaboratore di giustizia Francesco Geraci, collegato in videoconferenza. Quest’ultimo ha riferito della sua partecipazione agli attentati a Roma durante la quale si sarebbe dovuto uccidere, su ordine di Totò Riina, Giovanni Falcone, nei primi mesi del 1992, mentre questi era direttore degli Affari penali del Ministero della giustizia. “Quando partimmo per Roma, io sono andato con Enzo Sinacori in aereo, Matteo Messina Denaro è partito con Renzo Tinnirello, e Giuseppe Graviano è partito con Fifo De Cristoforo.

Non solo Falcone
"Avevamo compiti differenti - ha raccontato Geraci - cercavamo Maurizio Costanzo, Michele Santoro, Pippo Baudo e Giovanni Falcone perché dovevamo ucciderli. Quando uscivamo eravamo a gruppi, ero io con Sinacori, Graviano con Fifo De Cristoforo e Messina Denaro con Tinnirello. La macchina l’abbiamo affittata a nome mio perché ero io che avevo la carta di credito. Per quella trasferta Messina Denaro diede 5 milioni di lire ciascuno. A Roma siamo stati circa 9 giorni”. Nel continuo della sua deposizione, il pentito ha spiegato che “ci dissero che dovevamo uccidere i giornalisti per allontanare l’attenzione dalla Sicilia e creare dei casini al Centro Italia. Portare l’attenzione sui vecchi brigatisti. Ne parlava Matteo Messina Denaro”. Geraci ha poi raccontato come doveva essere svolto quel piano di morte: “Si parlava di mettere il tritolo in un bidone dell’immondizia o una macchina vicino al teatro dove si faceva il Maurizio Costanzo Show. Io e Sinacori siamo andati anche a fare un sopralluogo. Di armi - ha aggiunto - a Roma non ne ho viste. Le avevo viste invece a Mazara del Vallo quando le stavano preparando. C’erano dei kalashnikov che Matteo Messina Denaro e Enzo Sinacori provarono. C’erano delle pistole. Moltissime armi comunque”.

La riunione preparativa
Prima di partire per la “missione romana”, il collaboratore ha spiegato che con Messina Denaro si erano recati a Palermo per una riunione preparativa, alla quale lui stesso non prese parte. “C’erano Matteo Messina Denaro, Renzo Tinnirello, i fratelli Graviano, Enzo Sinacori, Salvatore Biondo, e lì si è deciso che si doveva andare a Roma. - ha detto - Nella Capitale eravamo io Matteo Messina Denaro, Giuseppe Graviano, Renzo Tinnirello, Enzo Sinacori, e un’altra persona. Mi portarono a Roma perché avevo l’American Express che gli faceva comodo”.

I legami con Messina Denaro
Nel corso dell’esame, il teste ha poi ricordato i suoi legami con il boss di Castelvetrano: "Da bambino, a Castelvetrano, giocavo con Matteo Messina Denaro, che era mio vicino di casa. Poi crescendo" negli anni Ottanta "diventai grossista di oreficeria ma mi facevano un sacco di rapine, così mi rivolsi proprio a Matteo Messina Denaro, per avere una protezione. Da allora non mi successe più niente, ma è iniziato il mio calvario. E' stata la rovina della mia vita". E poi ha aggiunto: “Feci anche sei o sette omicidi, erano omicidi fatti nell'interesse della organizzazione non nei miei interessi”. Poi il capomafia trapanese diventò latitante. Latitanza che sarebbe stata organizzata anche grazie all’aiuto dei boss di Brancaccio Giuseppe e Filippo Graviano: "Ricordo che trascorse del tempo anche nella zona di Brancaccio a Palermo dove sono andato almeno due volte. E ricordo anche che Matteo trovava delle villette a Giuseppe Graviano in estate, quando i Graviano venivano al mare a Selinunte”. Un rapporto stretto, dunque, a 360°. Un asse che nel 1993 porterà le stragi fino al Continente.

Foto © Shobha

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