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capaci-no-mafiadi Aaron Pettinari - 25 novembre 2014
Al processo “bis” il collaboratore di giustizia racconta l'Attentatuni
Dopo aver dato un segnale agli “amici”, con la morte di Salvo Lima nel marzo del 1992, Cosa nostra, il 23 maggio, decise di reagire contro lo Stato “a prescindere dall'esito” dopo la conferma in Cassazione delle condanne del maxi processo. “Riina voleva dimostrare che a comandare era Cosa nostra – ha ricordato il pentito Gioacchino La Barbera, ascoltato quest'oggi presso l'aula bunker di Rebibbia al processo Capaci bis - A prescindere dall'esito dell'operazione l'intento era quello di lanciare un segnale ben preciso con quell'attentato: la bomba era per Falcone, ma se nell'auto bianca che lo trasportava si fosse seduto dietro avrebbe potuto salvarsi. Nessuno di noi immaginava che Falcone si mettesse alla guida dell'auto. Se si fosse sistemato dietro, si sarebbe salvato come l'agente Costanza”.

Così non è stato e in quel terribile attentato che sventrò l'autostrada a Capaci oltre al giudice persero la vita la moglie Francesca Morvillo ed altri tre agenti di scorta. “I fatti dimostrano quel che dico. Se Falcone non si fosse trovato alla guida non sarebbe morto. Era stata messa in conto la possibilità che non sarebbe andato in porto. Io avevo confidenza con Gioé lui credeva che c’erano grandi possibilità di fallimento. E Brusca e Bagarella pure dicevano che bastava un segnale”. Per uccidere il magistrato, del resto, sarebbe stato più semplice intervenire a Roma, dove lo stesso girava spesso anche senza scorta. “Noi lo sapevamo – ha raccontato i giudici – sarebbe stato molto più facile. Ma Riina voleva dimostrare che comandava lui. Così chiamò tutte le famiglie anche quelle di Trapani e Catania. Era una prova di forza. Doveva essere eclatante. Capaci, via d’Amelio, poi ha anche trovato altri schizzati come i Graviano per fare gli attentati fuori dalla Sicilia. Io non so chi ha consigliato a Bagarella di fare questi attentati. Lui non avrebbe mai potuto sapere cosa fossero gli Uffizi a Firenze. Queste erano cose per far sottomettere lo Stato”.

Gli estremisti di destra e Bellini
L'ex boss di Altofonte, rispondendo alle domande dei pm Luciani, Sava e Dodero, ha anche ricordato che Leoluca Bagarella aveva conosciuto in carcere alcuni estremisti destinati ad essere “coinvolti in cose che la mafia non aveva mai fatto prima”. Il pentito ha riferito che Bagarella gli disse di “aver conosciuto in galera delle persone serie. Non so se di destra o di sinistra, ma diceva che erano in grado di spiegargli come trattare con lo Stato e suggerirgli cosa fare per dare fastidio allo Stato”. Durante l'udienza La Barbera, che con Nino Gioé aveva un rapporto particolarmente stretto, ha anche ricordato gli incontri tra quest'ultimo e Paolo Bellini, estremista di destra, nonché esperto d'arte. “Con Gioé pensavamo che fosse un soggetto vicino ai servizi segreti. Si era fatto il carcere sotto falso nome, poi si era messo in contatto con Gioé proponendo uno scambio di favori. Cosa nostra doveva recuperare dei quadri, o qualcosa del genere. Lui, tramite un generale, avrebbe potuto adoperarsi per far andare ai domiciliari o all'ospedaliero alcuni boss detenuti. Noi portammo dei nomi come Pippo Calò, Bernardo Brusca, Giuseppe Gambino, ma non venne nulla da questa parte”.

Due tipi di esplosivo per ottenere un risultato maggiore
Il collaboratore di giustizia ha poi spiegato di essere stato coinvolto nella preparazione de “l'Attentatuni” tra marzo ed aprile ma all'inizio “non sapevo che si trattava di una strage per Falcone. L'ho saputo durante il trasporto dell'esplosivo. Nino Gioé mi partecipa che si l'obiettivo era il giudice. Mi ricordo che chiesi a lui come sarebbe andata a finire, chiedendo quel che volessero fare gli altri. E lui rispose: 'ne sentirai ancora.. la nostra fine sarà o morti ammazzati o all'ergastolo. E' finito tutto'”. E poi sulla preparazione della strage ha aggiunto: “Caricammo dodici, tredici bidoncini, da 20-25 kg ognuno. Ma mai prima d’ora ne avevamo utilizzato così tanto esplosivo. Utilizzammo due tipi. Uno era granuloso, l’altro era di tipo farinoso. Le operazioni di travaso vennero eseguite in una villino a Capaci. Fu Rampulla a suggerire il da farsi. Ci spiegò che per avere una maggiore deflagrazione era importante mescolare i due tipi di esplosivo. E di fatti nel cunicolo dovevamo inserirli in maniera alternata”. La Barbera partecipò anche all’inserimento dell’esplosivo nel cunicolo scelto: “Le operazioni non furono semplici perché era particolarmente stretto. Quando entrai ricordo che tanto era stretto che mancava l’aria. Una volta uscito dissi ‘Qui ci moriamo noi’. Lo stesso disse anche Brusca. Poi entrò Gioé e riuscì ad arrivare fino al centro dell’autostrada. Per operare utilizzammo un skateboard munito di ruote ed agganciato ad una corda. Utilizzammo una torcia, i guanti sempre, anche del mastice per impedire che il filo del detonatore si strappasse”. Durante quelle operazioni, che venivano svolte di notte per evitare di essere scoperti, il commando per poco non fu scoperto quando una pattuglia dei carabinieri si trovò a sostare a poche centinaia di metri dal canale di scolo dell'autostrada dove si verificò l'attentato proprio mentre gli uomini di Cosa Nostra stavano sistemando l'esplosivo. “Scesero due ragazzi - ha raccontato La Barbera - fecero un bisogno e se ne andarono. Non si accorsero di noi ma Leoluca Bagarella era già pronto a sparare”. A quella fase di imbottitura del cunicolo con l'esplosivo avrebbe dovuto partecipare anche Pietro Rampulla, “ma ricordo che ebbe un incidente con una ragazza proprio nella zona di Capaci. Ci fu una questione di documenti chiesti, mi sembra pure che intervenne Biondino per far sì che non venissero messe in mezzo assicurazioni. Comunque a quel punto fu deciso di non far venire più Rampulla. E' per questo che non c'era neanche il giorno dell'attentato”.
Del resto tutto era pronto e preparato nei minimi particolari anche se non si sapeva quando Falcone sarebbe tornato in Sicilia. “Aspettavamo una telefonata. Erano i Ganci e Cancemi a doverci avvertire. Avevamo fatto diverse prove per capire anche se l'impulso al detonatore sarebbe arrivato in tempo e avevamo liberato la visuale dalla montagnetta verso l'autostrada. Poi il giorno dell’attentato fui io a collegare i fili per il detonatore”. Un particolare inedito, quello raccontato da La Barbera, che di fatto conferma quanto ricordato ieri anche dall'ex boss di San Giuseppe Jato Giovanni Brusca: “La ricevente era spenta e quando ricevemmo la telefonata io avevo il compito di accenderla. Non posso escludere di aver collegato anche i fili del detonatore perché ricordo che c’era un certo pericolo nel lasciare tutto là. Io mi ricordo che lasciare lì la ricevente era un bel rischio. Io mi limitai ad inserire il circuito. Se era tutto apposto? Assolutamente sì. Il materasso che avevamo lasciato a copertura del cunicolo era al suo posto. Non so se qualcuno può essere intervenuto per inserire altro esplosivo. Mi sento di escluderlo però. Poi me ne andai anche perché il mio compito era quello di affiancare il convoglio di Falcone per comunicare con Brusca riguardo alla velocità a cui procedevano le auto. Noi eravamo pronti per una velocità di 160-170 km/h ma quel giorno le macchine andavano molto più piano”.

Soggetti esterni a Cosa nostra “avvistati” ma senza scandali
Il pentito, stimolato dai pm, ha anche ricordato la presenza di alcuni soggetti esterni a Cosa nostra durante le fasi preparative della strage. “A Rebottone ricordo la presenza di un soggetto che non mi fu presentato ma credo si trattasse di qualcuno che conosceva Brusca. Mi pare che lavorava presso una cava. Poi ricordo altre due figure diverse nei villini a Capaci. La prima volta era nel giorno della preparazione dei bidoncini di esplosivo. Questa persona era per forza fidata perché entrò in casa con Troia e si capiva che non si stava facendo un pranzo. Non aveva segni particolari al volto. Ricordo che con Gioé ci voltammo. Un’altra volta fu alla villetta dove aspettavamo la telefonata per l’arrivo di Falcone. Furono comunque incontri di pochi minuti tanto che io pensai che si trattasse di un giardiniere o di un proprietario della villetta”. In un'altra occasione invece fu una signora a vedere dei movimenti in uno dei villini di Capaci. In quel caso il commando preferì spostarsi per non destare sospetti. Un particolare su cui la Procura ha cercato di insistere nel capire per quale motivo, le volte successive, non è stato preso un provvedimento simile. E La Barbera ha ribadito: “Non era affar nostro in quanto i responsabili erano altri. Se Biondino e Troia erano tranquilli ed anche Brusca era tranquillo. Per questo motivo mi risposi che doveva essere qualcuno di fidato e non ci spostammo”. Sempre rispondendo alle domande dei pm Luciani, Dodero e Sava ha poi parlato del ritrovamento nella casa di Gioé, in via Ughetti, di un block notes della Camera dei deputati. “Fu un regalo di Gaspare Lo Nigro. Era un giovane deputato a noi vicino. Si era adoperato per far ottenere gli arresti ospedalieri a Bernardo Brusca. Noi riuscivamo ad entrare e fare i summit con lui tranquillamente sotto i carabinieri mai ci chiesero i documenti. Lo Nigro si vantava anche di essere uno dei servizi segreti. Diceva che ci avrebbe potuto portare alla Camera senza problemi ma noi non lo usammo mai per questo”.

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