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repici f borsellino quaterDall'attentato al depistaggio, “un Truman show in salsa horror”
di Aaron Pettinari
“Lo stupro della figura morale di Paolo Borsellino, dopo la sua uccisione, è che non Cosa nostra ma banditi di Stato si siano appropriati dell'agenda Rossa”. Le parole dell'avvocato Fabio Repici, legale di parte civile di Salvatore Borsellino, risuonano forti nell'aula D del palazzo di giustizia di Caltanisetta, dove si svolge il quarto processo sull'eccidio di via d'Amelio. Accanto a lui siede proprio il fratello del giudice. Da quel 19 luglio 1992, assieme agli altri familiari, attende di conoscere una verità completa su quanto avvenuto in quella disgraziata domenica. Ancor prima che il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza iniziasse a squarciare quello “scenario di cartapesta” che era stato costruito, Salvatore Borsellino aveva ripreso la propria lotta chiedendo a gran voce allo Stato giustizia per suo fratello.
Era da tempo che non tornava in aula e lo scorso anno aveva persino pensato di uscire dal processo dopo il rifiuto dell'allora Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, a testimoniare. Sul punto anche Repici è tornato, proprio in apertura di discussione: “E' moralmente intollerabile l'iniziativa assunta da Giorgio Napolitano, nel momento in cui ricopriva la più alta carica dello Stato, di sottrarsi alla testimonianza in questo processo. Ho scoperto che, oltre alla categoria dei testimoni falsi e reticenti esiste anche quella dei testimoni renitenti”. Quella testimonianza mancata (prima ammessa e poi revocata) con il Presidente della Repubblica che inviò una missiva alla Corte d'assise nissena dicendo che la sua testimonianza sarebbe stata ripetitiva, è la raffigurazione plastica di uno Stato che su certi fatti non vuole andare fino in fondo.
Mettendo in fila i vari accadimenti che hanno preceduto e che si sono succeduti dopo l'attentato Repici ha parlato chiaramente di un “Truman show in salsa horror”. Prima di affrontare il tema del depistaggio, però, c'è da contestualizzare il momento storico in cui Borsellino viene ucciso.

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I 57 giorni di Borsellino
Dopo aver ricordato l'operato svolto dal giudice a Palermo e a Marsala, l'emissione della sentenza ordinanza del maxi processo e le vicissitudini che portarono alla strage di Capaci, il 23 maggio 1992, l'avvocato Repici ha ripercorso quei 57 giorni che separano i due attentati: “Nel pomeriggio di sabato 23 maggio Paolo Borsellino cambiò. Da quel momento fu praticamente un'altra persona. I fatti da lui percepiti dal 23 maggio al 19 luglio, le sue valutazioni da quel momento hanno una misura diversa”. Cosa era accaduto? C'era stato l'omicidio di Salvo Lima, prima conseguenza di quel programma che Cosa nostra aveva portato avanti dopo la sentenza in Cassazione del maxi processo. “I pentiti – ha aggiunto – hanno raccontato delle riunioni, quella regionale di Enna e quella provinciale di Palermo per cui viene fissato un programma politico, delittuoso. Ad Enna viene deliberato il via alla campagna stragista che ha un diretto obiettivo politico, ovvero stravolgere gli equilibri che c'erano stati fino a quel momento e trovare altri alleati rispetto a quelli che si erano rivelati inaffidabili”. Repici ha sottolineato anche un altro dato “straordinariamente sorprendente”. Nella riunione di Enna, per la prima volta, Cosa nostra decide infatti che quei delitti vanno rivendicati: “Solitamente venivano depistati. Quella era la prima volta. Ed il nome scelto è quello di una sigla strana, di chiaro stampo politico, quello della Falange Armata. Una sigla che aveva già avuto una prima evocazione nell'aprile 1990. Data in cui un educatore penitenziario venne assassinato. Si tratta della rivendicazione dell'omicidio di Umberto Mormile. Una circostanza che dovrebbe far riflettere anche sulle vicende dell'applicazione del 41 bis, con un esponente della 'Ndrangheta, Antonio Papalia, che diede disposizioni di rivendicare quel delitto con il nome della Falange Armata”. Parole che assumono un valore ancora più grande se si considera che in aula, tra il pubblico, erano presenti anche il fratello e la sorella dell'educatore penitenziario, Stefano e Nunzia. Non c'erano, purtroppo, i pm. Un'assenza che si è fatta sentire e che si commenta da sola. “Dopo Enna c'è la riunione degli 'auguri di Natale – ha proseguito Repici – in cui si decide di eliminare i nemici di Cosa nostra ma anche gli amici non più tali. Il processo ha detto chiaramente che quella deliberazione venne conosciuta all'esterno addirittura da uomini dello Stato. Ad esempio da Calogero Mannino, ex ministro, che apprese che anche lui era tra gli obiettivi”.













Paolo Borsellino, testimone mancato
Proseguendo nella sua discussione il legale ha ricordato anche le parole del giudice Paolo Borsellino quando intervenne a Casa professa il 25 giugno 1992: “Borsellino in quell'occasione disse chiaramente che voleva essere sentito come testimone dalla Procura di Caltanisetta. Procura che però non lo chiamò. Noi sappiamo che lui scriveva appunti su un'agenda Rossa. Agenda che oggi non abbiamo, ma di cui conosciamo il valore che lo stesso Borsellino attribuiva ad essa. Basta ricordare il maremoto che lo stesso giudice provocò a Salerno nel momento in cui non riusciva più a trovare l'agenda. Poi ci sono le dichiarazioni della famiglia, e di tutti quei soggetti che in ambito professionale lo avevano visto in possesso della stessa. Cosa era scritto all'interno? Lo possiamo comprendere dalle dichiarazioni rilasciate dalla moglie, Agnese Piraino Borsellino. Certo è che dal 23 maggio lui si dedica anima e corpo per capire cosa fosse accaduto e forse era l'unico che poteva realmente capire certe cose. Con Falcone, magari, aveva potuto valutare certi fatti, come l'omicidio Lima o anche l'omicidio del maresciallo Giuliano Guazzelli. Quest'ultimo era l'interfono tra il generale Subranni ed il ministro Mannino. Borsellino si era occupato di quell'omicidio, sapeva chi era Guazzelli”.













Quel senso per la “trattativa” che diventa “baratto”
Ovviamente durante l'arringa viene affrontato anche il tema della trattativa, che avrebbe portato anche all'accelerazione nell'esecuzione della strage. E Repici ha ricordato alla Corte l'incontro che Borsellino ha avuto con Liliana Ferraro il 28 giugno 1992: “E' lei a riferire a Borsellino che il capitano De Donno supportava Mario Mori nel contattare Vito Ciancimino per avviare un discorso politico. Di discorso politico parla De Donno con la Ferraro e Mori con Violante. E quando questi chiedono se era stata informata l'autorità giudiziaria la risposta è sempre stata negativa perché si trattava di un discorso politico”. Perché il Ros non disse nulla a Paolo Borsellino? La risposta è nel dato di fatto: “Quella non era un'operazione di polizia giudiziaria. Il Ros non incontra un mafioso, Ciancimino, per accogliere dichiarazioni o confidenze. Lo incontra affinché riferisca messaggi ai vertici di Cosa nostra”. Repici ha evidenziato, dunque, l'assenza di relazioni di servizio su quell'operato: “Se la parola trattativa non si deve dire allora utilizziamo quel che dichiarò Mori in un'intervista a Ballarò, ovvero che quella non fu una trattativa ma un baratto”. Quel “baratto”, secondo la ricostruzione dell'avvocato, portò poi all'arresto di Totò Riina. “Sarà questo l'unico latitante catturato dal Ros - ha aggiunto - Dunque chi era l'interlocutore di Cosa nostra? Bernardo Provenzano. Del resto basta ricordare quel che disse Giuffré al momento della cattura di Riina. 'Provenzano commentò che sono dei sacrifici che vanno fatti agli dei'”.
Il legale ha ricordato anche le parole di Paolo Borsellino che il 3 luglio 1992, in un'intervista rilasciata al Corriere del Mezzogiorno, laddove diceva che “Riina e Provenzano sono come due pugili che si mostrano i pugni”.













Paolo raccontato da Agnese e l'agenda Grigia
Per comprendere cosa avesse saputo Paolo Borsellino in quei 57 giorni basta rileggere le dichiarazioni della moglie, Agnese. Il giudice ha infatti confidato alla moglie che Antonio Subranni, il capo del Ros, è Punciuto”. “E' una frase gravissima – ha detto Repici – Subranni viene indicato come un uomo di Cosa nostra. In quel periodo stava portando avanti un'importante attività. Stava ascoltando il collaboratore di giustizia Gioacchino Schembri, originario di Palma di Montechiaro. Mori, qui audito, ha risposto ad una domanda su dove fosse la casa del generale Subranni ed era a Campo Felice di Licata, esattamente nell'area territoriale in cui Schembri operava”.
C'è poi il dato che si evince dall'agenda Grigia, quella in cui Borsellino segnava gli appuntamenti, che si affianca alle dichiarazioni del pentito Gaspare Mutolo, sentito a Roma il primo luglio '92. “In quella data – ha ricordato Repici – è appuntato quell'interrogatorio e alle 18.30 viene appuntato l'incontro con Parisi ed un'ora dopo quello con Mancino. Mancino che quando è stato sentito dalla Procura in fase d'indagine ha rilasciato dichiarazioni false. Davvero possiamo credere che Borsellino sia stato convocato solo per stringere la mano al ministro? Davvero possiamo credere che Mancino sapeva chi fosse Borsellino ma non ricordava la sua faccia?”. Ripercorrendo le dichiarazioni di Mutolo il legale di Salvatore Borsellino ha sottolineato come questi “aveva fatto dichiarazioni nei confronti di Bruno Contrada, ex numero tre del Sisde, e il giudice Signorino. E forse anche di un terzo, Giuseppe Ayala”. Secondo il racconto di Mutolo, inoltre, Borsellino avrebbe incontrato anche Contrada, che mandò i suoi saluti dimostrando di ben sapere che si stava effettuando quell'interrogatorio che sarebbe dovuto essere riservatissimo. Tra i fatti inquietanti riportati dal legale di parte civile vi è anche la mancata applicazione alla Criminalpol di Rino Germanà, storico collaboratore di Borsellino quando era a Marsala. “Alla moglie – ha aggiunto Repici – racconta poi altre cose. Le dice: 'sto vedendo la mafia in diretta' e le dice di abbassare le finestre 'perché dal Castello Utveggio ci spiano'. E al ritorno da Roma dice di 'aver respirato aria di morte'”. Una pista, quella del Castello Utveggio, non tenuta in considerazione dai pm, secondo il legale, erroneamente.













Arcangioli e la borsa di Borsellino
Durante l'arringa trova spazio anche la proiezione di un video in cui vengono ripercorsi gli accadimenti in via d'Amelio immediatamente dopo l'esplosione dell'autobomba ed in particolare dove viene ricostruita la vicenda dell'agenda Rossa. “Una vicenda – ha ricordato il legale – che parte nel 2005 con il contributo di ANTIMAFIADuemila la quale, anziché fare uno scoop, riferisce all'autorità giudiziaria la presenza in uno studio fotografico di una foto con un uomo che ha in mano la borsa di Borsellino”. Nelle immagini proiettate in aula tra i protagonisti si vedono l'ufficiale dei carabinieri Giovanni Arcangioli e l'allora onorevole Giuseppe Ayala. Repici mette in evidenza i comportamenti dei due testi: “Nelle immagini abbiamo visto Arcangioli, Ayala, e il colonnello Emilio Borghini, comandante del Gruppo dei carabinieri di Palermo. Il primo si allontana da via d'Amelio con in mano la borsa di Borsellino dove all'interno vi era l'agenda Rossa. Si vede anche un momento in cui Arcangioli parla con Borghini anche se in aula ha detto di non ricordare la sua presenza in via d'Amelio. Il modo di agire di Arcangioli non è proprio di qualcuno che sta compiendo delle investigazioni, come ci ha riferito. Del resto non c'è alcuna relazione di servizio che attesti questo”. Nel proseguo dell'arringa l'avvocato ha anche chiesto una revisione del processo contro Arcangioli che ha rinunciato alla prescrizione: “Lui, che ha avuto una notevole progressione di carriera, non ci ha detto cosa ha fatto della borsa. E' evidente che è lì in missione. E' andato lì sapendo che c'era la borsa e dopo l'esplosione la preleva. Non solo. Dice anche di aver appreso che le indagini erano state delegate ai carabinieri. Come poteva essere possibile? Lui ha rinunciato alla prescrizione e quella sentenza per cui è stato prosciolto in via definitiva può essere revocata”.
Quindi l'avvocato ha passato in rassegna anche le molteplici versioni rilasciate da Ayala, che ha detto di aver avuto per qualche attimo in mano la borsa di Borsellino, e quelle del giornalista Felice Cavallaro, “che mai, in nessuna ripresa compare al fianco o nelle vicinanze dello stesso Ayala”.
Repici ha evidenziato come sull'agenda rossa vi sia stata “una corsa tra carabinieri e polizia. Anche quest'ultima ci ha messo del suo. Lucia Borsellino ci ha raccontato la mostruosa reazione di Arnaldo La Barbera quando ha chiesto che fine avesse fatto l'agenda Rossa. E lo stesso La Barbera ha poi commentato che questa era sparita per combustione e che dentro non vi era scritto nulla di rilevante”.
Su Ayala Repici ha aggiunto: “Certamente non possiamo sospettare che sia stato lui ad aver trafugato l'agenda ma la sua condotta testimoniale non è stata sicuramente commendevole”.













Cosa avviene dopo la strage: indagini e depistaggi
Tra i “dati patologici” individuati dall'avvocato di Salvatore Borsellino vi è la collaborazione che il procuratore capo di Caltanissetta del tempo, Tinebra, richiede al Sisde: “Mai ufficialmente l'autorità giudiziaria aveva delegato attività ai Servizi, perché non si può fare, ma il 20 luglio 1992 si incontra con Contrada per decidere le indagini”. Repici ha nuovamente ricostruito il ruolo della Squadra mobile e le azioni che sono state portate avanti per arrivare alla confessione di Candura e Scarantino. “Il dominus di quella vicenda è la Squadra mobile - ha ribadito chiaramente Repici - E quello che è stato fatto è gravissimo. Le torture a Vincenzo Scarantino per convincerlo a confessare il suo ruolo nella strage di via D'Amelio rappresentano uno sforzo criminale, portato avanti da uomini dello Stato. Ma quelli non sono uomini dello Stato, sono banditi".
In particolare l'avvocato ha puntato il dito contro l'ex capo della Mobile Arnaldo La Barbera, definendolo "il principe del depistaggio", e sottolineando le condotte dei poliziotti Mario Bo, Vincenzo Ricciardi e Salvatore La Barbera, che quando vennero chiamati a deporre nel Borsellino quater si avvalsero della facoltà di non rispondere. Più di una stoccata il legale l'ha riservata anche al magistrato Ilda Boccassini, che aveva deposto a Caltanissetta: "La dott. Boccassini, in questo processo ci ha detto che la falsità di Scarantino emergeva dalla sua stessa confessione. Ma nel luglio '94, in una conferenza stampa insieme all'ex procuratore capo di Caltanissetta Giovanni Tinebra aveva osannato il lavoro svolto dagli investigatori e lo stesso Scarantino. La Bocassini è la stessa che arriva a dichiarare il falso sulla fuoriuscita di Genchi dal Gruppo Falcone e Borsellino. Non solo. Era stata proprio lei a redigere il primo verbale di interrogatorio di Scarantino. E sempre lei autorizza i colloqui investigativi al carcere di Pianosa di Scarantino quando già aveva avviato la collaborazione. Poi però scrive la lettera con cui passerà alla storia per aver scoperto l'inganno Scarantino”.
Secondo il legale, Scarantino era “Jolly di riserva per operazioni di depistaggio”. Il legale ha ricordato l'episodio raccontato da Vincenzo Agostino per cui proprio Arnaldo La Barbera gli mostrò, in un riconoscimento di Faccia da mostro, tra le foto anche quella del picciotto della Guadagna. E lo stesso Scarantino ha riferito che l'allora Capo della Polizia e Bo gli chiesero di “accollarsi anche l'omicidio dell'agente Agostino e della moglie Castelluccio”.
Tra gli aspetti approfonditi anche la vicenda delle intercettazioni abusive nell'abitazione della madre di Borsellino ed anche quelle risultanze che emergono nei primi processi su Pietro e Gaetano Scotto.













Dietro la strage apparati di Stato
Secondo Repici “la strage di via D'Amelio non è stata fatta solo da Cosa nostra, ma anche da apparati dello Stato". L'avvocato ha richiamato le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza nella parte in cui parla della presenza di una persona non appartenente a Cosa nostra nel garage di via Villasevaglios, dove venne preparata l'autobomba usata in via D'Amelio. “Spatuzza – ha aggiunto – riconobbe questo soggetto in formula dubitativa come il funzionario del Sisde Lorenzo Narracci. Per intenderci colui che ricevette un minuto e venti secondi dopo la strage la telefonata mentre era con Contrada”. Repici ha anche sottolineato che le dichiarazioni rilasciate dal pentito di Brancaccio non sono totalmente differenti da quelle di Scarantino: “Come è possibile che quest'ultimo parla di Tinnirello e Tagliavia? Chi ha detto a Scarantino che questi due ricevettero l'auto da imbottire? Mistero”. Tornando sulle dichiarazioni che il falso pentito aveva rilasciato sulla presenza dei tre pentiti Cancemi, La Barbera e Di Matteo alla riunione nella villa di Calascibetta ha offerto una chiave di lettura nuova: “I negazionisti del depistaggio dicono che La Barbera, Bo e Ricciardi non avrebbero mai fatto mettere quei nomi. C'è da tener conto di alcune cose però su quei soggetti. Su Mario Santo Di Matteo vanno ricordate le intercettazioni con la moglie in cui non parla di Capaci, ma di via d'Amelio e di infiltrazioni della polizia.
Salvatore Cancemi, fino a quel momento, aveva raccontato solo un decimo di quel che sapeva mentre La Barbera, si scopre oggi, si trovava prima di essere arrestato, in un covo, quello di via Ughetti, dove c'erano uomini del Sisde che controllavano gli investigatori della Dia che indagavano proprio su Nino Gioé e lo stesso La Barbera”.













Assolvete Scarantino
Infine il legale ha parlato delle posizioni dei singoli imputati condividendo le conclusioni dell'accusa su Salvo Madonia e Vittorio Tutino, accusati di strage, e su Calogero Pulci e Francesco Andriotta, accusati di calunnia. Non, però, quelle su Vincenzo Scarantino.
“Per Andriotta e Pulci è vero che hanno ammesso le proprie responsabilità quando messi spalle a muro – ha detto – Scarantino no però. Lui aveva tentato in più occasioni di ritrattare ma si è anche beccato una condanna per calunnia. La ritrattazione televisiva a Mediaset è un atto che scompare come l'agenda rossa. E più volte si era recato anche in carcere per farsi arrestare dichiarando che le sue dichiarazioni erano false”.
“Oggi – ha concluso Repici – ho sentito il mio assistito dire che è una vergogna che si possa chiedere la condanna di Scarantino. Lui è una vittima. Io condivido questa riflessione. Scarantino è l'unico che a differenza di altri ha chiesto scusa. Ed in aula lo stesso Gaetano Murana, parte civile, tramite il suo legale ha detto proprio di dire che non c'era nulla di cui scusarsi perché lui era pure una vittima. Ma questo non lo disse solo Murana ma anche Agnese Borsellino, nel libro scritto con Salvo Palazzolo. Voi lo avete in atti. Scriveva: 'Caro Vincenzo ti fa onore che tu abbia avvertito il bisogno di chiedermi perdono, è un sentimento che io accetto. Mi chiedo tuttavia quali siano i motivi per i quali mi chiedi perdono, quale ribellione ha la tua coscienza, come sei stato coinvolto in questa immane tragedia? Dopo la strage di via d'Amelio quali sono le persone che ti hanno zittito e minacciato? Quali istituzioni avevano interesse a depistare le indagini?... Aiuta chi ti ascolterà a conoscere la verità su questo depistaggio talmente grave che i suoi autori meritano di essere puniti e smascherati quanto coloro che hanno armato la mano degli attentatori”. Per questo motivo, dunque, il legale ha chiesto di assolvere dal reato Scarantino in quanto indotto a lasciare false dichiarazioni per “stato di necessità”. Il processo riprenderà il prossimo 6 febbraio.

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