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tribunale caltanissetta poliziadi Francesca Mondin e Aaron Pettinari
“Il mio ruolo? Dottore, lo vorrei capire pure io il mio ruolo, mi ritengo solo un poliziotto di strada”.
Non ci sono silenzi, stavolta, da parte del funzionario di polizia Vincenzo Ricciardi, oggi in pensione, sentito ieri al processo Borsellino Quater.
Dopo l’archiviazione dell’indagine nei confronti suoi e dei colleghi Mario Bo e Salvatore La Barbera sul depistaggio relativo alle prime indagini sulla strage di via D’Amelio non è stato più possibile “avvalersi della facoltà di non rispondere”.
Così, caduto lo “scudo”, suo malgrado l'ex membro del gruppo Falcone e Borsellino ha dovuto rispondere alle domande dei pm Stefano Luciani e Gabriele Paci, dando la propria versione dei fatti su quanto avvenuto in quegli anni immediatamente successivi alle stragi del 1992. In particolare si è soffermato sulle attività di indagine compiute per arrivare poi all'arresto ed alla gestione del “falso pentito” Vincenzo Scarantino.
Un'udienza fiume che prima ha visto la deposizione di Rosalia Basile, moglie dell'ex picciotto della Guadagna, quindi quella del perito che fece i rilevamenti sul citofono della famiglia Borsellino e sulla grafologa che analizzò le carte che sarebbero state date allo Scarantino per preparare al meglio i propri interrogatori.
Poi è stata la volta dei due funzionari che nella loro esposizione non sono stati particolarmente brillanti.
Quello di Ricciardi è stato un esame pieno di “non ricordo, potrebbe essere, non lo so” e divagazioni varie, tanto che la pubblica accusa si è sfogata dicendo ”Non riesco a capire se è un suo modo di esprimersi o cosa”.

Gestione Scarantino
Così come è emerso nel corso del dibattimento, tra i compiti di Ricciardi vi era proprio quello di gestire quello che all’epoca, ad appena due anni dalla tragedia, era considerato il pentito chiave della strage di Via D’Amelio. “Sì, ero io a gestire la sicurezza dello Scarantino dopo che entrò nel programma di protezione” - ha confermato il teste rivolgendosi alla Corte. Ma su quale fosse il suo ruolo all'interno del gruppo investigativo Ricciardi è stato particolarmente evasivo.
“Visto che lei gestiva la sicurezza dello Scarantino, ha mai saputo che a Pianosa (dove era detenuto Scarantino nel primo periodo, ndr) sono stati autorizzati 10 colloqui investigativi di due appartenenti polizia di stato nei primi giorni di luglio 94?” ha chiesto il pm Luciani. E il funzionario ha risposto quasi scaricando su altri le responsabilità: “Non lo so, non mi viene proprio in mente, io non ci sono mai andato a Pianosa, io non dirigevo, mica dovevano riferirte tutto a me”.
Ed è a questo punto che la pubblica accusa ha sollevato un importante punto interrogativo riguardo la gestione del gruppo Falcone e Borsellino coordinato da Arnaldo La Barbera (oggi defunto) costruito all’epoca proprio per sviluppare le prime indagini sulla strage di via d'Amelio. Un gruppo che nello specifico si occupò anche della gestione dei tre falsi pentiti Andriotta, Scarantino e Candura che con le loro dichiarazioni portarono alla condanna all’ergastolo di sette persone innocenti liberato dopo ben 18 anni di carcere. “Ma come eravate strutturati?” ha insistito il pm. Ed il teste: “C’era il gruppo… se io ero a capo del gruppo? no no, io pensavo di essere a capo ma c’era anche Mario Bo, noi eravamo i più anziani ma io ero quello che conoscevo meno, la mia attività era fare il badante allo Scarantino”.

Quali sopralluoghi
E sulla divisione dei ruoli all'interno del gruppo è poi tornato il pm Paci. Nell’approfondire la questione delle perplessità di Ricciardi rispetto a quanto riferito da Scarantino sulle modalità di apertura del cancello della carrozzeria di Orofino (che Spatuzza ha indicato come il luogo in cui sarebbero state prelevate le targhe da sostotuire a quella della Fiat 126 mentre Scarantino aveva indicato come il luogo in cui la stessa auto fu imbottita di esplosivo, ndr) tra il magistrato ed il teste vi è stato un nuovo botta e risposta.
“Quando riferisce di aver appurato della porta dell’officina di Orofino ricorda se era accompagnato da qualcuno?” ha chiesto il primo. “Non lo so, da solo no” ha risposto Ricciardi. Ed il pm ha ribattuto: “ma lei aveva un suo gruppo, noi non riusciamo a capire la divisione del lavoro all’interno del gruppo, lei era il più autorevole in grado perchè invece sembra che il primo che si svegliava faceva qualcosa...”. In tutta risposta il funzionario di polizia si è limitato a dire: “Ma vede io appena arrivo a Palermo faccio un sopralluogo dei posti”.
Nello spiegare le sue perplessità sullo Scarantino, il teste lo ha descritto come “un bambino capriccioso che quando veniva interrogato ripeteva sempre le stesse cose”. Ha quindi smentito le accuse rivolte nei suoi confronti rispetto ad eventuali “maltrattamenti e minacce”. Inoltre, a suo dire, Scarantino non gli avrebbe “mai riferito di essere innocente, né tantomeno mi ha mai manifestato la volontà di voler ritornare in carcere”.

I verbali che non ci sono
Ma la sicurezza ostentata nel respingere le accuse del picciotto della Guadagna è poi venuta meno quando si è tornati a parlare dei sopralluoghi effettuati da Scarantino a Palermo, in particolare nella zona di Boccadifalco.
Ricciardi ha iniziato dicendo “no non mi risulta, non ricordo - e poi sotto l’insistenza del pm - forse sì, probabilmente fu portato per trovare qualche riscontro”. “Lei c’è e stato a Boccadifalco?” ha chiesto il magistrato. E l'ex funzionario ha risposto con certezza in maniera affermativa, senza ricordare se c'erano altre persone. Immediatamente dopo, però, sull'incalzare delle domande, ha rettificato: “Sì, sì, Arnaldo la Barbera sicuramente si. Guttadauro? Certamente”.
Ma ogni certezza svanisce quando è il momento di ricordare gli esiti di quei sopralluoghi. Così Ricciardi ha tentato di aggrapparsi ad eventuali atti. “Se c’è qualche atto a mia firma… io se fossi andato una relazione l’avrei fatta un minimo di verbale” ha detto rivolgendosi alla Corte.
“Purtroppo - ha replicato il Pm Luciani - non c'è traccia di quelle relazioni. Non riusciamo a trovarle”. Ma le difficoltà per l'allora funzionario del gruppo Falcone-Borsellino non sono finite qui.

Tre versioni su Candura
Altro punto poco chiaro nell'esame dell'allora funzionario del gruppo Falcone-Borsellino è stato poi quello della ricostruzione sul momento in cui Candura (l'uomo che si accusò del furto della 126 usata come autobomba e diede input all'indagine, ndr) fece il nome per la prima volta del picciotto della Guadagna.
Come ha sottolineato la pubblica accusa infatti sono ben tre le versioni date dal teste nel corso del tempo: in un primo momento, durante un interrogatorio, aveva detto che ciò sarebbe avvenuto al commissariato Libertà. Poi, al processo Borsellino uno, disse che il nome fu fatto nel carcere di Bergamo. Diversamente, durante un confronto con Stagliano, aveva spiegato che Candura aveva fatto il nome di Scarantino a Palermo in maniera informale, mentre a Bergamo davanti al magistrato. Nel cercare di dare una versione definitiva ieri Ricciardi ha dato una nuova ricostruzione: “Mi sono sbagliato, non è stato in commissariato ma è stato a Bergamo”. E poi ha specificato: “Io non ho detto che l’ha fatto al commissariato Libertà io ho detto che forse l’ha detto quando lo stavamo associando al carcere”.

Rinvio Bo
Sulla stessa linea d’onda, fatta di “non so” e “non ricordo” accostati a secchi “certo” e “sicuramente”, senza ulteriori spiegazioni, ha poi avuto luogo l'esame del secondo funzionario di polizia, Mario Bo. Un esame che ha subito assunto toni particolarmente accesi proprio per questo motivo: “E’ la sesta volta che ci dice certo! - ha detto Paci riprendendo il teste - o continua o, se dice certo ci aspettiamo che continui a spiegare”. Dopo il botta e risposta il pm ha quindi chiesto il rinvio dell’interrogatorio al 13 aprile: “Presidente siamo stanchi ed è necessaria una maggiore tranquillità”.

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