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scarantino-vincenzodi Aaron Pettinari - 28 maggio 2015
Al Borsellino quater il racconto del depistaggio
Quanti scheletri ci sono nell'armadio dello Stato? E' una domanda che sorge spontanea ascoltando le quasi dodici ore di testimonianza di Vincenzo Scarantino, imputato per calunnia assieme a Francesco Andriotta e Calogero Pulci nel processo Borsellino quater che sta tentando di fare luce sulla strage di via D'Amelio. Oltre alla consapevolezza che le loro false dichiarazioni hanno portato alla condanna all'ergastolo di 8 innocenti, ora in attesa del processo di revisione, si fa sempre più palese lo convinzione che una fetta di Stato, o di anti-Stato, ha preso parte al colossale depistaggio che, a quasi ventitré anni di distanza, non ci ha consegnato ancora una completa verità su quanto avvenuto negli anni delle stragi.

Uno scenario che già era grave con la sparizione di documenti chiave (su tutti l'agenda rossa di Paolo Borsellino) ma che assume colori sempre più oscuri proprio con la “costruzione in laboratorio” di falsi pentiti. Nel depistaggio, tuttora indagati dalla Procura di Caltanissetta, sarebbero coinvolti i funzionari di polizia, Vincenzo Ricciardi e Mario Bo, e Salvatore La Barbera. I primi due, nel novembre 2013 chiamati a deporre in questo dibattimento, si sono avvalsi avvalsero della facoltà di non rispondere mentre La Barbera si perse in un fiume di non ricordo. Parole vuote e i silenzi che fanno ancora più male se si considera che ad usarle sono pezzi delle istituzioni. Se fosse ancora in vita indagato sarebbe anche Arnaldo La Barbera, ex capo della Mobile e poi questore di Palermo, che negli anni dopo le stragi si mise al comando del gruppo investigativo “Falcone-Borsellino”. In questa due giorni nissena Scarantino ha fatto nomi e cognomi denunciando il “terrorismo fisico e psicologico” perpetrato nei suoi riguardi. “Io dovevo essere il clone di Buscetta, questo lo diceva La Barbera e tutti quanti” ha raccontato alla Corte il picciotto della Guadagna. E poi ancora: “Quando non mi ricordavo o andavo in confusione interrompevo l’interrogatorio, chiedevo di andare in bagno e loro (alcuni membri del Gruppo Falcone-Borsellino, ndr) mi davano le indicazioni”. Scarantino ha anche lanciato accuse nei confronti dei componenti del Gruppo investigativo che erano presenti a casa sua e che “erano stati mandati da La Barbera ad aiutarmi per sistemare le parti che andavano in contrasto”. Si tratta dell'allora ispettore superiore della polizia di Stato di Palermo, Fabrizio Mattei, e l'allora agente scelto Michele Ribaudo. “Chi avete sentito al processo, gli ispettori Mattei, Ribaudo, Valenti non dicono la verità. L’unica cosa che i primi due hanno detto di vero è che sono venuti a casa mia. Ma la verità è che mi hanno aiutato a sistemare le mie dichiarazioni”. Indicazioni che sarebbero state fornite sia prima di un interrogatorio con i magistrati che prima di un'udienza. Addirittura durante i sopralluoghi, come quello avvenuto per individuare l'autofficina di Orofino indicata all'epoca da Scarantino come il luogo in cui venne preparata la 126. “Eravamo io, Militello, Valenti, 'u Francisi e l'ispettore Inzerillo, abbiamo preso via Messina Marina e io non avevo indovinato, poi siamo scesi di nuovo e io non avevo indovinato… dico 'forse mi è sfuggito'. Allora Valenti mi dice 'è là'" indicando l'ubicazione da lontano”. Della carrozzeria di Orofino, rispondendo alle domande dei pm il falso collaboratore di giustizia, ha precisato: “mi hanno mostrato queste foto però non so indicare se è stato prima o dopo aver detto che della 126 non ne sapevo niente". Il primo riconoscimento fotografico avvenne il 29 giugno '94, davanti ai magistrati Petralia, Tinebra, Saieva e Boccassini: "Io non ho riconosciuto la carrozzeria, poi mi hanno fatto vedere le foto, dopo parlai con i magistrati, però se non vedevo le foto a loro non dicevo niente”. Proprio l'indicazione della autocarrozzeria di Giuseppe Orofino rappresenta uno degli elementi inquietanti del depistaggio. Al Borsellino (I) Orofino è accusato di essersi procurato la disponibilità delle targhe e dei documenti di circolazione e assicurativi falsi che furono apposti sulla 126 per consentirne la sicura circolazione e la collocazione sul luogo della strage. Sarà il pentito di Brancaccio Gaspare Spatuzza, diversi anni dopo, a spiegare che in quell'officina andarono a rubare le targhe di macchine che erano in riparazione. E tra queste vi era la targa usata per metterla nella macchina dell'autobomba. Che siano stati frammenti di verità fatti dire allo Scarantino, in mezzo a tante dichiarazioni fumogenee, proprio per rendere più “credibile” la storia? Lo stesso si può dire per quelle accuse fatte da Scarantino contro esponenti della famiglia di Brancaccio, che hanno portato alla condanna definitiva di mafiosi di primo piano come Giuseppe Graviano, Filippo Graviano, Francesco Tagliavia, Fifetto Cannella e Lorenzo Tinnirello. “L’unico che conoscevo personalmente era Pietro Aglieri. Altri li mettevo così – ha spiegato Scarantino - Io sapevo di non rischiare. Mi dicevano sempre di stare tranquillo anche se dentro di me sapevo che dove andavo, andavo, potevo essere screditato”. E parlando delle dichiarazioni riferite sulla riunione nella villa di Calascibetta prima delle stragi ha detto: “Su Rai3 si parlava delle riunione per fare le stragi, io ascoltando queste cose e quando il dottor La Barbera mi chiede dove era stata fatta la riunione io indicai Calascibetta che era latitante. Così lui mi fa vedere l’album chiedendomi chi c’era a quella riunione. E io rispondevo. Come sono infame per uno sono infame per 20 e io li ho accusati. Queste persone erano nelle sue indagini e lui me lo faceva capire”.

Il magistrato e l'innominato
Se La Barbera, che tempo dopo si scoprì essere anche appartenente dei servizi segreti con il nome in codice Rutilius, ed i suoi uomini sono stati protagonisti, accanto a loro, nel racconto di Scarantino, emergono anche altre figure. Infatti, parlando dei verbali ricevuti e su cui avrebbe lavorato assieme agli agenti del Gruppo Falcone-Borsellino, per “aggiustare” le dichiarazioni rese, il falso pentito ha riferito di averli ricevuti dall'ex pm Annamaria Palma, ora in servizio alla Procura generale di Catania. “Eravamo nei locali dello Sco di Roma – ha detto - Mentre ci allontanavamo mi diedero questi verbali dei precedenti interrogatori. Me li consegnò un poliziotto al quale li aveva dati la dottoressa Palma”. Inoltre, accanto a La Barbera, vi è lo spettro di un uomo in borghese che raggiunse Scarantino nel carcere di Pianosa, prima che la collaborazione con la giustizia fosse avviata: “Quando mi trovavo al carcere di Pianosa vennero Arnaldo La Barbera, un comandante della polizia penitenziaria ed un altra persona che non conoscevo. La Barbera me lo presenta come uno ‘importante’, un amico. Sicuro era più in alto (come importanza, ndr) di lui”. Di questo soggetto aveva parlato già durante la trasmissione di Michele Santoro, Servizio Pubblico, nel gennaio 2014. Durante quell’intervista, alla domanda circa la presenza di agenti dei servizi segreti, rispose che in un'occasione il questore Arnaldo La Barbera si presentò in carcere con uno sconosciuto che indicò come un "personaggio importante", ma di non sapere se fosse dei "servizi". Ed oggi ha confermato: “C’era questo uomo con i capelli castani. Era la prima volta che lo vedevo. Erano venuti davanti alla cella dove io ero in isolamento. Questa persona mi dice di stare tranquillo, di fare quello che il dottor La Barbera mi diceva. Era in borghese ma capì che era più importante di La Barbera. Quel che è certo è che dopo Pianosa non l’ho rivisto più”. Elementi che aprono ad ulteriori scenari investigativi e che dovranno essere approfonditi. Intanto non resta che una certezza sul depistaggio: Scarantino, che ovviamente assieme agli altri falsi pentiti ha le sue responsabilità, è l'anello debole di uno scenario ben più grande dove un pezzo dello Stato, o meglio dell'anti-Stato, ha agito per coprire indicibili verità.

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