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de-gennario-stragi-1992di Aaron Pettinari - 27 febbraio 2014
Il prefetto non parla di trattativa, sminuisce la relazione della Dia dell'agosto '93, ma non ricorda che la parola era già presente

E' un'udienza particolare quella che martedì scorso si è celebrata davanti la Corte d’Assise del Tribunale di Caltanissetta. Ad essere ascoltato dai giudici, al processo “Borsellino quater”, è stato il prefetto Gianni De Gennaro. Ai tempi delle stragi, nei primi anni Novanta, è stato vice direttore della Polizia, nel 1993 è divenuto poi capo della Direzione Investigativa Antimafia, nel 1994 è passato alla guida della Criminalpol mentre nel 1997 è stato nominato vice-capo vicario della Polizia per poi diventare capo dal 2000 al 2007. Negli ultimi anni capo del Dis, coordinamento dei servizi segreti, e poi nel governo Monti sottosegretario alla Presidenza del consiglio con delega ai servizi. Nel suo “curriculum” vi è anche una macchia con l'accusa nel 2001, in quanto capo della Polizia durante i fatti del G8 di Genova, di istigazione alla falsa testimonianza nell’ambito dei processi che sono seguiti all’assalto notturno alla scuola Diaz e alle violenze nella caserma di Bolzaneto, è stato assolto dalla Cassazione nel novembre del 2011.

La sua deposizione al processo “Borsellino quater” è importante perché potrebbe dare un impulso anche ad ulteriori indagini. I suoi “vuoti di memoria” non appaiono come secchi “non ricordo” ma diventano frutto di un ragionamento che lascia comunque diversi interrogativi a cominciare da quella relazione di 24 pagine della Dia, del 10 agosto 1993, che mise in fila con straordinaria lucidità quel che stava avvenendo nell'immediato post stragi. Erano passati pochi giorni dalle bombe di Roma e Milano, e si parlava di una strategia “Per insinuare nell’opinione pubblica il convincimento che in fondo potrebbe essere più conveniente una linea eccessivamente dura per cercare soluzioni che conducano ugualmente alla resa di Cosa Nostra a condizioni in qualche modo più accettabili per Cosa Nostra”. Inoltre gli analisti della Dia aggiungono nella nota: “La perdurante volontà del Governo di mantenere per i boss un regime penitenziario di assoluta durezza ha concorso alla ripresa della stagione degli attentati. Da ciò è derivata per i capi l’esigenza di riaffermare il proprio ruolo e la propria capacità di direzione anche attraverso la progettazione e l’esecuzione di attentati in grado d’indurre le Istituzioni a una tacita trattativa”.
Ed è questa parola che De Gennaro, di fronte ai giudici, dice di non aver mai sentito: “Nessuno mi parlò mai di trattativa. Né degli approcci per un contatto con Vito Ciancimino. E poi sarei stata l'ultima persona a cui sarebbe stata fatta una tale confidenza”.
E alla domanda sul perché la Dia, che avrebbe dovuto coordinare ogni indagine di mafia, non sarebbe stata informata ha risposto: “Come disse Tavormina in Commissione antimafia (suo predecessore alla guida della direzione antimafia ndr), la stessa Dia, sebbene per legge dovesse essere un’unica struttura di intelligence che accorpava le altre forze, si poneva come 'altra struttura investigativa' parallela al Ros dei carabinieri, allo Sco della polizia e al Gico della guardia di finanza”.
Quindi l'ex capo della polizia è tornato sulla nota dell'agosto 1993: “Quella relazione non rappresentava un'ipotesi investigativa ma una serie di valutazioni e sentimenti comuni che raccoglievamo tra gli addetti ai lavori. Non ricordo chi la sviluppò. Dopo Capaci rivedemmo il significato dell'omicidio Lima del marzo 1992. Prima pensavamo ad una semplice vendetta, poi lo valutammo inserendolo in un contesto di azione criminale che andava anche oltre Cosa nostra”. Eppure quella relazione dell'agosto 1993 fu presa in considerazione tanto che l'allora ministro dell’Interno Nicola Mancino la spedì a Luciano Violante, presidente dell’Antimafia, in forma riservata.
De Gennaro ricorda anche che “Dopo la strage di Via d'Amelio, nell'ottobre-novembre 1992, la Dia avanzò al procuratore nazionale antimafia la richiesta di applicazione per una legislazione di emergenza per una misura di prevenzione contro 26 sospetti mafiosi che avrebbero potuto proseguire con gli attentati. La Dia proponeva di isolare tali soggetti. Ma poi non si fece più nulla”.

La vicenda Arlacchi
arlacchi-pino-trattativaTra le questioni affrontate anche l'affermazione che Pino Arlacchi, parlamentare europeo e amico personale di Falcone e Borsellino, ha attribuito allo stesso De Gennaro in merito a Contrada, Mori e ad alcuni contrasti con il Ros, durante un interrogatorio (l'11 settembre 2009) in cui rispondeva ai pm in merito ad un’intervista del giornalista de La Stampa, Francesco La Licata. “Il Colonnello Mori ed il dott. Contrada mi risulta che fossero ambedue in forte contrapposizione col dott. De Gennaro – diceva Arlacchi - Io stesso non condividevo il metodo con il quale il colonnello Mori agiva in quel periodo, contrassegnato da un ricorso a confidenti e da un'azione che definirei poco trasparente. Preciso, tuttavia, che il giudizio su Mori e sui soggetti allo stesso vicini non era così negativo come quello che si aveva su Contrada, che ritenevamo davvero pericoloso e capace anche di compiere omicidi... omissis... Dopo le stragi del 1993 si consolidò presso i vertici della D.I.A. l'idea che le stragi avevano una valenza politica precisa, e cioè erano finalizzate a costringere lo Stato a venire a patti ed instaurare una trattativa. Sul punto formulammo insieme a De Gennaro delle ipotesi, ritenendo che il gruppo andreottiano, tramite i suoi referenti di cui ho detto - e cioè il gruppo Contrada - fosse uno dei terminali della trattativa”.
Anche in questo caso De Gennaro, smentendo Arlacchi, ha “depotenziato” la portata delle affermazioni disconoscendo il termine contrapposizione. “Ho avuto un rapporto di lunga data ed amicizia con Mori e quando ero commissario alla Mobile non ho mai avuto modo di collaborare con lui. Posso aver detto che il mio metodo di lavoro era un po' diverso dal metodo sviluppato dal Ros, più che dalla persona Mori.
Secondo me le affermazioni del professore Arlacchi potrebbero essere state delle sue valutazioni e deduzioni fatte in ordine di sviluppo dell'attività investigativa e sulle modalità investigative”.
E quando il presidente Balsamo ha chiesto una precisazione sulla diversità di metodo De Gennaro è andato dritto: “Io la perquisizione a casa di Riina l'avrei fatta immediatamente ma si tratta di un approccio investigativo diverso”.  
Quindi su Contrada ha aggiunto: “Con lui non ho mai lavorato e non ho mai avuto contrapposizioni. Al più vi possono essere state divergenze di opinione sui metodi investigativi, ma mai legate a circostanze specifiche. Le dichiarazioni di Arlacchi sono frutto di sue opinioni credo e ribadisco che se abbiamo parlato di questioni non possano essere inseriti all'interno di un contesto di trattativa”.
Rispetto al passato però De Gennaro, che era già stato sentito dai pm nel dicembre 2010, racconta un particolare in più. Allora infatti disse di non aver mai nemmeno sentito parlare di Marcello Dell'Utri, stavolta però l'ex capo della Polizia ha dichiarato di essersi occupato, con il suo ufficio, “dei collegamenti e dei contatti della famiglia Dell'Utri con altri malavitosi”.

L'incontro con Borsellino e Mutolo
Rispondendo alle domande dei pm il prefetto De Gennaro ha poi ricordato l'incontro con il giudice Paolo Borsellino, avvenuto in luglio in occasione dell'interrogatorio del collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo. “Mutolo non voleva avere contatti con altre autorità palermitane ma solo con il giudice Borsellino. L’ultima volta che vidi Borsellino – ha aggiunto l’ex capo della polizia – fu il 16 luglio ’92 a pranzo a Roma durante una pausa dell’interrogatorio di Mutolo. In quell'occasione ricordo che Paolo mi parlò della problematica che si era creata con il procuratore di borsellino-paolo-web11Palermo Giammanco che non gli aveva assegnato ufficialmente il processo. Io stesso chiamai Giammanco per rappresentare questa problematica poi risolta nei giorni successivi. Ricordo una telefonata tra me e Borsellino per risolvere alcune questioni in merito ad una rogatoria in Germania. Allora mi disse che Giammanco gli aveva assegnato la titolarità per interrogare Mutolo”. E sull'avviamento della collaborazione con il l'ex boss di Resuttana ha aggiunto: “Fu il giudice Falcone a dirmi, nel dicembre del ’91, che era intenzione di Mutolo, collaborare con la giustizia. Falcone, all’epoca in servizio al ministero di Grazia e Giustizia, mi disse che Mutolo si fidava di me e di Borsellino”.
Altro tema toccato durante gli esami dei testi è stato quello della dissociazione. Sia De Gennaro che l'altro teste, Francesco Gratteri, hanno confermato che negli anni Novanta era tra gli argomenti più ricorrenti in quanto il 41 bis veniva visto dai mafiosi come una forma carceraria particolarmente dura ed efficace in particolare nello stimolare la collaborazione con la giustizia. Con la dissociazione, invece, non avrebbero dovuto rinunciare ai propri patrimoni né tentomeno denunciare i propri crimini e quelli della consorteria mafiosa. “La prima volta che mi occupai della questione 'dissociazione' fu quando venni mandato dal Vescovo di Acerra don Riboldi – ha raccontato De Gennaro - Si era fatto portavoce di una richiesta che era pervenuta tramite il cappellano del carcere di Poggioreale il quale aveva raccolto la proposta di dissociazione avanzata da esponenti del clan Moccia per dissociarsi come camorristi in modo da non divenire né collaboratori né testimoni. Dissi che questo non era possibile. La dissociazione poteva essere funzionale ad una strategia dei vertici delle organizzazioni criminali che puntava a favorire gli affiliati le cui responsabilità erano già note, alleggerire le posizioni di eventuali condannati senza che si arrivasse ad una collaborazione e quindi non arrivare all'applicazione del regime carcerario 41 bis che era particolarmente temuto”.

Le dichiarazioni di Gratteri e Di Petrillo
Francesco Gratteri, in servizio nel ’92 alla Direzione investigativa antimafia, ha quindi aggiunto: “Prima di iniziare a collaborare con la giustizia, Gaspare Mutolo espresse la precisa volontà di voler rendere dichiarazioni solo ed esclusivamente a Paolo Borsellino – ha confermato Gratteri - Mutolo non aveva fiducia nella Procura di Palermo. Non riteneva la struttura giudiziaria palermitana affidabile”. Il primo a raccogliere le dichiarazioni di Mutolo fu l’allora procuratore della Repubblica di Firenze Pier Luigi Vigna. Fin dall’inizio, Mutolo avrebbe espresso perplessità sul giudice Domenico Signorino e sull’ex numero tre del Sisde Bruno Contrada, sostenendo che i due fossero collusi con la mafia. “Le prime dichiarazioni di Mutolo – ha raccontato rispondendo ai Pm Stefano Luciani e Gabriele Paci – risalgono alla primavera del ’92, probabilmente dopo la strage di Capaci. Inoltre ricordo che durante un interrogatorio Mutolo si appartò con Borsellino e colsi distintamente pronunciare il nome di Signorino. Non so se in quel momento parlò anche di Contrada ma dai discorsi che facevamo con Mutolo durante il periodo di gestione della collaborazione c'era questa preoccupazione di esplicitare ai magistrati certe dichiarazioni, in particolare proprio al dottor Borsellino”. Gratteri ha anche ricordato la telefonata ricevuta dallo stesso Borsellino, il primo luglio, in cui il giudice palermitano venne convocato al Ministero degli Interni. “Ricevetti io la telefonata da Manganelli il quale diceva che il Capo della Polizia (Parisi ndr) voleva mettersi in contatto con Borsellino”.
Un incontro confermato anche dal prefetto Luigi Rossi, nel 1992 direttore della Criminalpol. “Il giudice Paolo Borsellino, poco prima di morire, si recò al ministero dell'Interno. In quell'occasione, era il primo luglio del '92, incontrò il capo della Polizia Vincenzo Parisi. Borsellino si trovava a Roma per interrogare Gaspare Mutolo”. Proprio in quel giorno si insediava il neo ministro Nicola Mancino. Il teste ha anche detto che più volte, in quel periodo, il magistrato incontrò il capo della Polizia”. E del ritorno dal Viminale del giudice ucciso in via d'Amelio ha parlato il funzionario della Dia Domenico Di Petrillo: “Il giudice Borsellino quando rientrò dal ministero, il primo luglio del 1992, sembrava turbato, arrabbiato o sorpreso.dia10 Non so dire con certezza il suo stato d'animo. Il primo a incontrare Mutolo fu Vigna e poi Borsellino”.
Di Petrillo ha poi raccontato anche di un altro episodio verificatosi negli Stati Uniti in cui si trovò ad interrogare il capomafia Gaetano Badalamenti assieme ai giudici Cardella e Natoli, assieme ad altri rappresentanti delle forze dell'Ordine tra cui il maresciallo Lombardo, Fiorelli ed Obinu. “Cardella lo voleva sentire nell'ambito dell'inchiesta sull'omcidio Pecorelli, Natoli per le indagini su Andreotti. Ricordo che Badalamenti mi prese il braccio e per due volte mi disse fissandomi negli  occhi 'Colonnello stavamo dalla stessa parte'. Anche questo episodio mi convinse poi a lasciare i carabinieri assieme ad altre questioni”. Il processo quindi si è concluso ed ora riprenderà l'11 marzo, sempre nell'aula bunker di Caltanissetta, alle 9,30.

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