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toga-giudice-giustiziadi Aaron Pettinari - 11 ottobre 2013
“Mi massacrarono di botte e minacciarono. E nessuno tenne conto delle mie contraddizioni”
Tutte ebbe inizio i primi giorni del settembre 1992. Salvatore Candura, ladro d'auto, venne arrestato con Luciano e Roberto Valenti per rapina e violenza sessuale. Pochi giorni dopo l'arresto cominciò a parlare del furto della Fiat 126, utilizzata come autobomba per l'attentato di via D'Amelio, “commesso su incarico di Vincenzo Scarantino che gli aveva promesso un compenso di 500.000 lire” dando di fatto vita al colossale depistaggio sulla strage. Una storia che venne scritta con tanto di sentenze e condanne definitive ma che è stata sgretolata dalle dirompenti rivelazioni del collaboratore di giustizia di Brancaccio Gaspare Spatuzza.
Così il 10 marzo 2009, interrogato dai pm di Caltanissetta, Candura ha ammesso che diciassette anni prima s'inventò tutto. Non solo dichiarò di non aver affatto rubato l'auto ma anche di essere stato indotto ad accusarsi del furto e a chiamare in causa lo Scarantino a seguito delle pressioni e delle minacce fattegli dal dott. Arnaldo La Barbera, e anche da altri funzionari di polizia. Pressioni che sarebbero proseguite anche negli anni successivi al 1992, nell'arco della sua “falsa collaborazione”.
E di questo ha parlato ieri lo stesso Candura, ascoltato come teste al Processo Borsellino quater che si sta celebrando innanzi alla Corte d'assise a Caltanissetta.

“Nel giorno dell'arresto erano presenti Ricciardi, Salvatore La Barbera e 3-4 agenti, mi interrogavano all'inizio sulla violenza sessuale ma ben presto il tema cambiò e mi parlarono della Fiat 126. Io dicevo che ero estraneo sia alla violenza sessuale che al furto. Ad un tratto i dirigenti sono usciti dalla stanza e sono rimasto con gli agenti. Mi hanno fracassato di botte, Presidente, non potete immaginarlo. Mi massacrarono. Un poliziotto mi fede sbattere la testa sul tavolo. Poco dopo rientrò Arnaldo La Barbera. Io non avevo nemmeno la forza per piangere e lui mi disse: ‘Ne va della tua vita, ti faccio dare l'ergastolo, io sarò la tua ossessione. Devi dirmi che hai rubato tu l’auto e dirmi a chi l’hai portata. Ti incastrerò perché ho le prove. Io continuavo a proclamarmi innocente. Con il furto della 126 non c’entravo nulla così come non c’entravo nulla con l’accusa di violenza sessuale. Ero un galantuomo e mai e poi mai avrei potuto abusare di una ragazza così come non sapevo nulla di quella 126” ha raccontato rispondendo alle domande dei pm. E da quel momento, dopo le pressioni, iniziò la storia del “falso collaboratore di giustizia”. “Io ero titubante – ha proseguito nel racconto - chiedevo a La Barbera come avrei fatto se avessi avuto dei confronti perché sapevo di accusare persone che neanche conoscevo. Lui mi diceva di stare tranquillo che avrebbe pensato a tutto lui, che sarei entrato nel programma di protezione, che non ci sarebbero stati problemi. Ore e ore su questo punto, voleva che gli dicessi che il furto me l’aveva commissionato Profeta. Era accanito. Mi diceva che mi avrebbe fatto avere la protezione e mi dava 200 milioni”.
Così venne definita ogni cosa. Secondo il teste il defunto capo della mobile palermitana lo avrebbe anche invitato a fare il nome di Salvatore Tomasello, e sostenere che la vettura era stata consegnata in una traversa di via Cavour “anche se generalmente, quando lavoravo per Scarantino, non portavo mai le auto fuori dalla zona della Guadagna”.
Dopo aver trascorso alcuni giorni alla Squadra mobile, Candura venne portato in carcere all'Ucciardone assieme a Luciano Valenti. “Lì chiesi di parlare con un funzionario del carcere perché volevo ritrattare quelle dichiarazioni e dire cosa era successo. Sono entrate in cella tre guardie carcerarie e non ho avuto nemmeno il tempo di parlare: uno mi ha dato una testata e mi ha rotto il setto nasale e gli altri mi hanno picchiato a sangue. Poi massacrarono anche Luciano Valenti. Quando mi portarono dal medico questi mi chiese solo poche cose e non disse nulla. Ero ridotto così male che non hanno nemmeno potuto farmi le foto segnaletiche in carcere. E lo ha visto anche il pm che mi interrogava per la violenza sessuale, al quale ho dovuto dire che ero caduto dalle scale”.
Delle violenze subite Candura, durante gli interrogatori dell'ultima inchiesta non aveva mai detto nulla almeno fino al 2010.
Candura, che più volte nel corso dell’esame ha affermato di aver “passato 10 anni di inferno” per una cosa che dice di non aver fatto, ha sostenuto di essere sempre stato ‘telecomandato’ da La Barbera e dal suo vice, Ricciardi anche se in lui i dubbi restavano. “A La Barbera dicevo sempre che se questa versione cadeva io ero rovinato. Indicavo anche le incongruenze tra le mie dichiarazioni rispetto a quelle di Scarantino, ma lui mi diceva di non preoccuparmi. E quando Scarantino cambiò le proprie dichiarazioni sul luogo di consegna dell’auto capii che lo avevano indottrinato”.
Oltre al capo della Mobile, Candura ha chiamato in causa anche i funzionari Vincenzo Ricciardi, Salvatore La Barbera e Mario Bo, dicendosi sicuro che fossero consapevoli della versione costruita a tavolino. “A Mantova, Ricciardi e La Barbera mi avevano fatto un cazziatone: guai a te se sbagli, e mi facevano ripassare quello che dovevo dire. Se durante l’interrogatorio io andavo nel pallone, intervenivano”.
E proprio su Mario Bo si è soffermato ancora il pm chiedendo: “Come mai ha detto di aver visto Mario Bo negli uffici della Mobile nel settembre del ’92, in occasione del suo arresto, quando risulta che il dottor Bo venne assegnato a Palermo solo nell’agosto del ’93?”. E Candura ha risposto “Lui c’era, dottor Luciani mi creda. Era in borghese ma c'era”.
Nel corso della lunga deposizione - costellata di interruzioni ai collegamenti in videoconferenza con gli imputati, che hanno costretto la Corte a lasciare l’aula bunker per trasferirsi a palazzo di Giustizia – il teste ha anche affermato di temere per la propria vita e per quella della figlia, raccontando inquietanti episodi, l’ultimo dei quali, avvenuto 15 giorni addietro: “Hanno incendiato il motore del mio scooter. Io temo che facciano qualcosa a me o a mia figlia. Anche pochi giorni dopo l'interrogatorio del marzo 2009, in un bar di Palermo, si presentarono due persone, che ritengo essere poliziotti, che mi invitarono a mantenere le mie vecchie dichiarazioni. Poi – ha rivelato oggi – mi hanno rubato la macchina che ho ritrovato smontata e con un cartello con su scritto la parola 'pentito' o 'confidente'”. “Quando ero un pentito - ha affermato - mi sono inventato una valanga di fesserie pur di apparire credibile. Spesso mi contraddicevo e mi chiedevo come mai nessun magistrato se ne accorgesse”.
Il processo è ripreso oggi, al Palazzo di Giustizia di Caltanissetta, con altri testi citati dall'accusa. Il controesame di Candura è fissato invece per il 22 ottobre. 

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