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Continuano le rivelazioni del pentito Luigi Ilardo, ucciso da Cosa Nostra

di Michele Riccio

Proseguiamo, dai numeri precedenti, nella ricostruzione della vicenda di Luigi Ilardo, confidente del ROS, che, con il suo contributo, ha reso possibile la cattura di numerosi latitanti di grosso calibro facenti parte di Cosa Nostra. Sarà il colonnello dei carabinieri Michele Riccio stesso, che ha raccolto in prima persona le dichiarazioni di Ilardo, a condurci nello studio del caso, che cela, a nostro avviso, importantissime informazioni, non solo sulla vita occulta dell’organizzazione e del suo capo indiscusso, Bernardo Provenzano, ma anche sugli intrecci esterni che coprono da sempre Cosa Nostra.


Vedere Ilardo compiere quel gesto improvviso, ma così significativo di alzarsi e disporre la sua sedia proprio di fronte al Dr. Caselli e fare quella premessa con chiare e semplici parole che manifestavano la sua inconfutabile volontà di voler collaborare prevalentemente con la Procura di Palermo e non di escluderla, come altri invece si attendevano, mi rese felice di assistere e partecipare a quella affermazione di libertà.
A quel primo spontaneo ed irrefrenabile sentimento di soddisfazione seguiva però un altrettanto immediato e non governabile  timore per quello che temevo mi avrebbe atteso dopo quell’incontro.
Con i fotogrammi ancora stampati negli occhi di Ilardo e Mori, dove alle parole così importanti e dense di significati del primo, seguiva l’immagine muta del secondo, uscito in tutta fretta dalla stanza dopo un attimo di immobilità, ed ora questa ulteriore azione, mi faceva comprendere che stavo vivendo un momento importante di una ulteriore fase della lotta a Cosa Nostra.
Lotta che questa volta avrebbe sicuramente inferto un durissimo colpo a questa criminale organizzazione, forse mortale, perchè sarebbe stato affondato fino alle sue radici, dove nessuno fino ad allora aveva osato spingersi.
Ora ero sicuro che non ci sarebbe stata distinzione, considerazione o riguardo per nessuno, né per i motivi che li avevano condotti a colloquiare o intrecciare rapporti con quel mondo criminale, né per chi si definiva meno sanguinario o più sensibile di altri alle superiori esigenze. Tutti erano le facce di unico mostro che per esistere, trovare forza ed alimento tenta da tempo di governare la nostra vita.
Il gioco del buono e del cattivo e della necessità di gestire gioco forza l’esistenza di questo essere, nel superiore interesse, è una storia vecchia come il mondo.
Tutti volendo possono partecipare. Basta ricercare gli interlocutori giusti, sempre pronti per altro ad offrirsi, attenersi alle regole del tavolo che dispensa ricchezza e potenza, bluffando solo quando si sta vincendo, altrimenti c’è il pericolo di pagare il piatto. Ma attenzione! Se si diventa parte integrante di quel tavolo non ci si può più alzare e non c’è ordine o distinzione del posto.
Con la sensazione di continuare a sentirmi un corpo estraneo a quella stanza, cercavo di scacciare ogni pensiero e di concentrarmi invece su quanto stava dicendo Ilardo e nel vederlo parlare senza alcuna interruzione o esitazione avevo per un attimo non so se invidia o rabbia per quel suo tranquillo procedere.
Me ne pentivo immediatamente, ben sapendo quanto aveva atteso quel momento ed il lungo percorso anche interiore che aveva dovuto affrontare per giungere ad occupare quella sedia posta di fronte ai magistrati e quale significato avesse per lui quello che stava facendo.
 
Il racconto
Dopo essersi qualificato come un esponente di livello di Cosa Nostra Ilardo riferiva di aver già avuto un incontro con Provenzano, come preventivamente mi aveva segnalato,  fornendomi poi ogni indicazione del luogo e dei discorsi affrontati.
Entrare in Cosa Nostra per lui era stato solo un atto formale, c’era nato dentro. Sin dal suo primo giorno di vita aveva respirato quell’aria. Ricordo che per spiegarmi ciò, mi raccontava di un’estate della sua vita di giovane ragazzo trascorsa al mare giocando con Giuseppe Di Cristina, ospite, con la moglie, della sua famiglia. Di quell’estate conservava ancora un filmino.
Suo padre aveva messo a disposizione del boss di Riesi un suo appartamento al mare nella zona di Messina, perché questi era stato allontanato dalla provincia di Caltanissetta ed inviato in quelle località in soggiorno obbligato e, nell’attesa di disporre di una casa adeguata alle sue esigenze, era loro ospite.
Come non dimenticare quell’improvviso alone di rispetto e di considerazione che lo facevano sentire un privilegiato quando lo zio Francesco Madonia “Ciccio” dopo un breve periodo di esame lo aveva scelto tra gli altri giovani parenti, compreso il fratello Giovanni, come suo autista personale.
Incarico che lo aveva riempito d’orgoglio e di soddisfazione e con lui suo padre, ma come non dimenticare sua madre che a quella notizia non aveva detto nulla, gli aveva solo fatto una carezza sul viso accompagnata da un intenso sguardo il cui significato lo  aveva compreso anni dopo quando, con lo stesso sguardo, era andata a trovarlo in carcere.
Da allora aveva accompagnato suo zio, che era socio in affari con il padre, ogni qual volta questi ne aveva bisogno. Sovente si trattava d’incontri importanti, altri meno, dove tutti apparentemente esternavano amicizia ed affabilità, discutendo affari ed affrontando problematiche offrendo o chiedendo appoggi nel reciproco e comune interesse.
Ma aveva notato che c’erano molte differenze anche nel senso d’amicizia per come parlavano e si rivolgevano fra loro: un modello di comportamenti che gli aveva fatto ben presto comprendere che quel gruppo di persone, così diverso da quelli che solitamente frequentava, si era dato delle regole e dei principi come uno Stato nello Stato.
Non gli era stato difficile comprendere che la maggior parte degli affari che interessavano la provincia di Caltanissetta gravitavano nelle mani dello zio, persona intelligente ed intransigente nel rispetto di quelle regole e di quei principi prima detti.
E il suo solito aggiungere alla parola amico l’espressione di “sincero o all’acqua di rose” gli aveva fatto comprendere la qualità della persona.
La deferenza usata nei confronti dello zio e l’alto livello ….. delle auto delle persone che lo incontravano o andavano a fargli visita gli avevano fatto sempre più comprendere come il parente fosse una persona importante e rispettata.
Molte di quelle macchine provenivano da Palermo. Aveva così imparato a conoscere che gli amici di riferimento erano i famosi “Corleonesi”, lo zio Ciccio era molto legato a Luciano Leggio che gli aveva presentato con lo pseudonimo di “professore”.  
Aveva viaggiato tanto con lo zio Ciccio, e aveva conosciuto moltissime persone come ad esempio i Pitarresi, i Colletti, i catanesi La Rocca, Santapaola, Magion, Romeo i f.lli Calderone ecc., Cinardo di Mazzarino, gli amici di Bagheria Castronovo, Nardo Greco, Nino Gargano già socio di suo zio ed altri ancora, che ben presto avevano imparato ad apprezzarlo e richiedere sovente anche il suo aiuto.
Circostanza che rendeva particolarmente soddisfatto lo zio, tanto che un giorno gli disse: “…ma con Pietrino Balsamo che gli facesti che ne parla così bene di te ?”
Stare con lo zio non era noioso. Ogni occasione si traduceva in un’utile lezione di comportamento. Questi aveva subito riconosciuto ed apprezzato la sua serietà, riservatezza, determinazione e capacità operativa.
Per lui era diventato normale assolvere senza porre obiezioni un incarico o ascoltare con attenzione le sue confidenze e ragionamenti, pronto a rispondere e dare un parere solo quando gli veniva richiesto.
Normale ancora quando in più di una occasione lo zio gli richiedeva di prendere con sé la pistola, quando riteneva che qualche incontro potesse nascondere insidie o pericoli.
In quelle occasioni era teso e pronto ad intervenire al minimo accenno di pericolo. Tante volte aveva atteso fiducioso che lo zio ricomparisse dall’ombra di quel portone che poco prima l’aveva inghiottito o che la sua figura si riconoscesse sul fondo della trazzera di quella campagna dove poco prima lo aveva visto allontanarsi a piedi ed in compagnia della persona che già lo stava attendendo.

La morte di Francesco Madonia
Ma in quell’incontro che precedeva di una decina di giorni la morte dello zio, nulla gli aveva fatto comprendere che l’ombra della morte era già distesa su di loro.
La sua fortuna fu che quel giorno un improvviso sciopero degli addetti dell’Alitalia impediva al cugino Piddu, in quel tempo a Milano, di raggiungergli a Catania e di recarsi con il padre e con lui il mattino dopo in una masseria sita nelle campagne tra Gela e Riesi per incontrare il Giuseppe Di Cristina, capo provinciale della famiglia di Caltanissetta.
Questi nel vederli arrivare gli andava incontro e dopo averli baciati, li faceva entrare in un ampio salone. Chiusa la porta alle loro spalle, avevano visto uscire dalle altre stanze attigue non meno di altre 15 persone. Fu un attimo. Non si preoccupò perché allora gli era impossibile pensare che in casa di amici di suo zio gli potesse accadere qualcosa di pericoloso. Continuò a non sospettare nulla mentre spiegava al Di Cristina i motivi fortuiti che avevano impedito al cugino Piddu di essere quella mattina con loro.
Il capo della famiglia di Caltanissetta disse che li aveva convocati perché aveva deciso di dare una lezione a due giovani di Riesi che, nonostante il suo specifico divieto, avevano effettuato estorsioni e, per lanciare un monito a quanti potevano pensare di imitare quell’esempio, aveva deciso di farli uccidere nella piazza del paese.
Per questa ragione aveva pensato che Ilardo con il cugino Piddu e due dei suoi uomini più in gamba erano le persone più adatte ad assolvere quell’incarico.
Più tardi mentre lo zio Ciccio si allontanava in un’altra stanza con alcune di quelle persone, il Di Cristina lo aveva condotto fuori nel cortile della casa e, nel presentargli le due persone che lo avrebbero poi accompagnato in quella missione, gli consegnava due bellissime pistole.
Nemmeno quando intrapresero la strada del rientro lo sfiorò il pensiero che avevano corso un grave pericolo, anche se aveva notato come suo zio si fosse stranamente zittito e rabbuiato. Non aveva commentato neanche l’ordine seccamente detto di transitare dal loro paese di Vallelunga dove poi, in un bar solitamente frequentato dai loro amici, il Madonia si era fermato a parlare intensamente con alcuni di loro come Vincenzo Privitera, Gaetano Pacino e Pietro Cipolla.
Il colloquio con gli amici del paese aveva tranquillizzato un pò lo zio e questo forse non gli aveva fatto comprendere la trappola in cui stava per cadere.
La sera precedente il giorno della sua morte Ilardo, nel rientrare da Milano con il Chisena, passava nei pressi dell’abitazione dello zio e nel vederlo fermo ad un angolo della strada intento in un serrato colloquio con Salvo Marchese gli si era avvicinato facendogli presente che era appena rientrato ed aveva ritirato il denaro della Famiglia, compendio (?) di affari ovviamente illeciti in corso presso quel capoluogo.
Lo zio, nel rimandare al giorno successivo il prelievo del denaro, gli riferiva che il giorno dopo, alle prime ore del mattino, avrebbe avuto un incontro con una persona che finalmente gli avrebbe spiegato cosa stava accadendo all’interno della loro Famiglia, ma nonostante egli volesse accompagnarlo, ne troncava ogni insistenza spiegandogli che non voleva pregiudicare l’esito di quel colloquio, perché era sicuro che quella persona non avrebbe gradito la sua presenza.
Salvo Marchese, cugino dei Calderone, aveva svolto bene il suo compito.
Alle prime luci di quel mattino dell’ 8 aprile 1978, che non voleva affacciarsi perché sapeva come si sarebbe sporcato ancora una volta di sangue, Francesco Madonia, nel percorrere la strada che congiunge Gela con Butera, nei pressi della masseria di Antonio Ferro, in contrada Falconara agro di Gela, cadeva in un agguato e veniva ucciso a colpi d’arma da fuoco.
Il rumore degli spari, in quel silenzio mattutino, non ebbe difficoltà ad arrivare a quella masseria che in quei giorni ospitava la latitanza di Pietro Rampulla e di un suo amico anche questi ricercato. Il Rampulla aveva il tempo necessario di precipitarsi alla finestra e vedere due auto allontanarsi velocemente nelle due opposte direzioni e ciò era quanto raccontava poi al Ferro Antonio che non perse tempo a riferire il tutto agli amici di Vallelunga.
La notizia della morte di Francesco Madonia raggiungeva poche ore dopo Ilardo in Catania che con il Chisena si era messo alla guida di un’auto per raggiungere la figlia di suo zio, Maria Stella a Gela. Raggiungerla fu un attimo, ma stabilire chi avesse commesso quel delitto era ancora una ipotesi anche se piuttosto fondata.
Decidevano pertanto di rientrare a Catania andando all’agenzia “Avimec”, la cui sede era sulla statale 14 in direzione di Siracusa e di proprietà della famiglia  Ercolano, certi di  trovarvi il Santapaola che in effetti era proprio in quel luogo in compagnia di Franco Romeo.
Nitto consigliò ad ambedue di rientrare in casa e di stare attenti finché egli non avrebbe avuto informazioni più sicure su chi avesse ordinato quel delitto. La stessa sera Santapaola, sempre accompagnato dal Romeo, li raggiungeva presso la loro abitazione e riferiva che i mandanti del delitto erano stati Di Cristina ed i fratelli Calderone. Il loro ulteriore progetto era quello di uccidere anche il Piddu e loro due.

La vendetta
Il Chisena che ormai era un appartenente a tutti gli effetti alla sua famiglia e al loro gruppo, per maggiore sicurezza, faceva arrivare dalla Calabria alcuni suoi uomini tra i più fidati anche per disporre di gente del tutto estranea a quei contesti locali e quindi più invisibile sul territorio.
A questo gruppo si aggregava anche il noto Turro Annunziato “Nuccio”, l’altro componente calabrese del squadra del Chisena, dai noti trascorsi nella destra eversiva e già da qualche tempo loro ospite in Sicilia in quanto latitante. Condizione che non lo aveva escluso dal partecipare a più di una missione armata per conto della Famiglia dei Madonia evidenziando così tanto coraggio e determinazione da meritare presto l’ammirazione dello stesso Ciccio Madonia al quale si era particolarmente affezionato.
Questi accorgimenti consentivano in più di una occasione di sventare agguati e individuare appostamenti sotto la loro abitazione di Catania da parte degli uomini di Calderone. Altrettanto numerose furono le loro sortite per la città allo scopo di incrociare i due fratelli Calderone e così vendicarsi.
Vendetta che doveva essere ricercata ad ogni costo perché si era venuti a conoscenza che Di Cristina, per commettere quell’omicidio, aveva portato con se Di Bilio Gaetano appartenente alla sua Famiglia e Pillera Salvatore appartenente a quella dei f.lli Calderone.
La morte dello zio pertanto decretava per Ilardo il suo ingresso formale in Cosa Nostra. Ormai era entrato a tutti gli effetti in quel meccanismo e così veniva nominato uomo d’onore dai componenti della Famiglia di Vallelunga alla presenza del cugino Piddu.
Giorni dopo con il Piddu ed il Chisena si recava a Palermo ed al Baby Luna, a bordo di una 127 di colore carta da zucchero, si presentava a prenderli Bernardo Provenzano che li accompagnava in una villa posta sulla circonvallazione della città, luogo dove era già li attendeva Riina. Dopo una decina di minuti circa furono raggiunti anche da Bagarella. 
Riina nel vederli gli andava dicendo “…avete visto,… tre volte Ciccio ha voluto salvare Di Cristina ed al posto di un cornuto, ora devo piangere la morte di un amico,… non vorrei un domani piangere anche la vostra,.. Di Cristina deve morire e questa storia deve essere condotta sino in fondo”.
In quella sede veniva deciso che mentre Piddu si sarebbe recato a Vallelunga, per sua maggiore sicurezza e per salvaguardare il vertice della Famiglia Madonia, Di Cristina Giuseppe sarebbe diventato l’obiettivo dei Corleonesi ed i f.lli Calderone quello di Ilardo e del Chisena.
Sere dopo il Piddu gli confidava che i Corleonesi erano prossimi a passare all’azione in quanto loro informatori che godevano la fiducia del Di Cristina, avevano segnalato che questi stava per recarsi a Palermo, avendo trovando ospitalità e riparo presso Inzerillo che gli aveva messo disposizione anche una casa. Di Cristina voleva tentare con il suo aiuto di trovare una soluzione a quello scontro con i suoi avversari che minacciava oramai di travolgerlo.
Il 30 Maggio, trascorso poco più di un mese dalla morte di Francesco Madonia, anche Di Cristina scriveva l’ultima pagina della sua vita. Quel giorno sotto l’abitazione di Palermo, messagli a disposizione da Inzerillo, dove era appena salito uno dei Calderone, Pillera ed un altro loro amico o presunto tale, veniva sorpreso dai suoi avversari.
Nel violento scontro a fuoco Giuseppe Di Cristina, prima di cadere colpito a morte, aveva il tempo di reagire e con la sua pistola feriva gravemente uno degli aggressori che dopo veniva condotto in una clinica privata dove gli veniva asportata la milza.
Poco dopo quell’azione Ilardo veniva nuovamente convocato a Palermo e Riina gli diceva “…Gino stai attento a te,… io ti ho avvistato,.. Calderone ti vuole fare la pelle arrivaci prima tu, che poi noi dopo interveniamo e sistemiamo le cose”.
Riferito il messaggio di Riina al Piddu ed al Chisena, decidevano che era tempo di passare all’azione e volendo dare una dimostrazione di forza e anche di monito ad altri potenziali avversari, ritenevano che collocare una bomba nell’auto di Giuseppe Calderone e poi attivarla a distanza con un telecomando quando questi sarebbe salito a bordo, avrebbe conseguito l’effetto ricercato.
Il tecnico per predisporre quel tipo di attentato era Nuccio Turro, un vero esperto nel fabbricare ordigni esplosivi da attivare con telecomandi a distanza. Unico inconveniente era che l’attivazione della bomba doveva avvenire entro due o tre giorni dal suo posizionamento, altrimenti le batterie che dovevano cogliere il segnale del telecomando si sarebbero inevitabilmente scaricate.
Questo particolare salvò due volte la vita al Giuseppe Calderone che fortuitamente aveva ritrovato anche gli ordigni esplosivi che Ilardo, Chisena, Turro e Franco Romeo avevano collocato una volta nella sua mini 90 de Tommaso che aveva fatto anche blindare e la volta successiva nella A 112 di colore arancione.
Il ritrovamento di queste due bombe, la prima sollevando casualmente il sedile di guida dell’auto e la seconda rinvenuta dal meccanico di fiducia che doveva riparare i danni di un incidente avvenuto in quei giorni, facevano chiaramente comprendere al Giuseppe Calderone che i suoi avversari non solo erano determinati ad ucciderlo, ma che avevano degli ottimi informatori in grado di segnalare con precisione ogni suo spostamento.
Ciò aumentò le diffidenze e le precauzioni del Boss catanese nei confronti del Santapaola e nonostante le finte dimostrazioni di amicizia e di rispetto di questi decideva di trasferirsi fuori Catania e ai vari appuntamenti faceva presentare un suo messo di fiducia per spostarli in luoghi più sicuri dove si presentava con guardia spalle fidati ed armati tra i quali Salvatore Lanzafame “Turi”, da tutti temuto per il coraggio e l’abilità con le armi.
Nonostante ciò anche lui commise un errore quando il solito destino decise che era giunto il suo giorno. L’occasione si presentava il 9 settembre sempre di quell’anno quando concordava un appuntamento con Salvatore Ferrera che immediatamente coglieva l’occasione per informare Santapaola che Giuseppe Calderone quel giorno alle ore 4 sarebbe transitato per la strada che collega Acireale al comune di San Gregorio.
Essendo due gli itinerari che collegano i due comuni, venivano organizzate altrettante squadre: una diretta dall’Ilardo ed appostata lungo la strada di raccordo interna; l’altra alle dipendenze del Chisena lungo la strada nazionale che passa tra Acitrezza ed Acicastello. Avevano voluto essere solo loro perchè quello era un “affare di Famiglia”.
Era il gruppo di Chisena composto da Nuccio Turro ed un altro calabrese latitante di San Luca, un tale Mico, a bordo di un’alfetta di colore blu, ad intercettare la A 112 blindata del Giuseppe Calderone alla cui guida vi era il Turi Lanzafame.
Non appena affiancata l’auto dei due catanesi l’inondarono di colpi di fucile automatico e di pistola.
Il Lanzafame colpito al collo riusciva a fermare la corsa della A 112 finendo fuori strada e rispondeva al fuoco. Ma rendendosi conto che il Calderone era stato colpito allo stomaco da una fucilata e vedendo sopraggiungere gli assalitori, abbandonava il capo al suo destino e fuggiva nella campagna circostante dileguandosi.
Il Turro si avvicinava al boss ferito e lo colpiva scaricando i colpi della sua 38  e lasciandolo disteso sull’asfalto convinto di averlo ucciso. Ma Calderone non era morto. Nonostante le gravi ferite riusciva ad alzarsi, chiedere aiuto e farsi trasportare in un ospedale. Moriva tre giorni dopo in una clinica dove era stato poi ricoverato.
La notizia delle morte di Giuseppe Calderone raggiungeva il fratello Antonino a Napoli, città dove aveva preferito riparare in quei giorni. Poco dopo, convinto che prima o poi la mano dei Corleonesi e dei loro alleati l’avrebbe raggiunto, decideva di ritornare a Catania.
Una volta in città si presentava a Santapaola e ricordandogli i legami di comparato che li univano, affermava di accettare la morte del fratello Giuseppe come una logica conseguenza logica dell’omicidio di Francesco Madonia da questi ordito insieme al Di Cristina, assassinio che lui invece non aveva condiviso.
Riina, come già anticipato, assumeva allora il controllo della vicenda e convocati in Palermo Ilardo e Piddu Madonia, nel far loro presente che nella stanza attigua c’erano Santapaola e Calderone non edotti della loro presenza, chiedeva loro di accettare le condoglianze che il giorno dopo questi avrebbe fatto presentandosi alla casa del Piddu in Caltanissetta accompagnato dal Santapaola.
Davanti a quella pubblica sottomissione Antonino Calderone aveva salva la vita ma la sua Famiglia, che per tanti anni aveva dominato le attività mafiose di Catania, scompariva da quel giorno per sempre.

La fine dell’incontro ed il ritorno in Sicilia
La crescente elettricità che coglievo nell’aria umida e spessa di quella sera di maggio e la buia espressione del viso dr. Tinebra m’impedivano, per quanto mi sforzassi, di seguire quel racconto, vicenda di cui coglievo solo i contorni perché già mi era stata raccontata in parte.
Stavo ancora tentando di recuperare i miei pensieri e di concentrarmi su quello che sapevo stava per raccontare Ilardo (ora che era terminata la sua lunga introduzione su come fosse entrato formalmente in Cosa Nostra) circa quel contesto deviato di appartenenti alle istituzioni ed ai servizi segreti con i loro legami con la massoneria, la destra eversiva e la criminalità organizzata, che era stato l’avvio dei nostri rapporti, per poi risalire ai mandanti delle stragi del ’93 e del ’94, quando venivo nuovamente scosso.
Vedevo alzarsi di scatto il dr. Tinebra e con quella espressione contrariata sul viso interrompeva l’esposizione di Ilardo e rimandava l’incontro di una decina di giorni  quando si sarebbe formalmente decretato l’ingresso di Ilardo nel programma di protezione.
Ilardo spiegava quindi che in quei giorni avrebbe pertanto risolto i suoi problemi di famiglia, facendo in modo che le sue figlie che, era certo, non avrebbero condiviso la sua scelta di collaborare con la Giustizia, avessero la disponibilità  e la proprietà della fattoria di Lentini per assicurare loro un futuro dignitoso.
Avrebbe trovato anche il momento più opportuno per affrontare lo stesso discorso con sua moglie e verificato definitivamente se in quei giorni fosse stato possibile ottenere un secondo incontro con Provenzano, come aveva già richiesto anche tramite la cugina Maria Stella.
Dopo aver fatto accompagnare Ilardo nella vicina infermeria per fare una iniezione al fine di calmare una fortissima emicrania che lo aveva colto, dovuta sicuramente allo stress di quella intensa serata, restavo ancora qualche istante con il dr. Caselli e la dr.ssa Principato.
I due magistrati mi chiedevano di registrare su cassette i temi principali delle dichiarazioni che avrebbe poi reso ufficialmente il collaboratore ora che lo avrei seguito in Sicilia, ciò per avere un primo sommario quadro del lavoro che li avrebbe accolti e per meglio organizzarsi specie su i contesti più datati.
Salutati i due Procuratori uscivo per raggiungere Ilardo e vedendo il Gen. Subranni insieme al dr. Tinebra, salutavo i due e mi avvicinavo al Generale rappresentando che il giorno seguente sarei partito per la Sicilia per raggiungere il collaboratore e registrare anche le sue dichiarazioni come mi era stato chiesto, al che il Comandante mi diceva che ciò non era necessario.
Raggiunto Ilardo, nel concordare dove rivederci l’indomani sera in Catania, parlavamo un po’ e dopo di che lo facevo accompagnare all’aeroporto di Roma. Quella sera più che mai stanco ed esausto prima di andare a dormire, mi fermavo al solito bar nei pressi del Tevere.
Ricordo che in quei dieci minuti in cui mi trattenevo seduto ad un tavolino che dominava il fiume sottostante, l’acqua illuminata dalle luce dei lampioni mi sembrò ancor più nera, quasi immobile, stagnante come se non ne avesse voglia di arrivare a Roma, stanca forse di averne viste troppe.
Il mattino dopo passato dal ROS incontrai il Col Mori ed il Gen Subranni che non fecero alcuna menzione su quanto avvenuto il giorno prima. Partivo per Catania.              

Michele Riccio


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Il colonnello dei carabinieri Michele Riccio

Il colonnello Michele Riccio inizia la sua carriera quando, dopo aver operato in Sardegna e sul confine Iugoslavo al comando della Tenenza CC. di Muggia (TS), nell’ottobre del 1975, viene trasferito al comando del Nucleo Investigativo CC. di Savona.
In seguito ad alcune fortunate operazioni di servizio che vedevano l’arresto di pericolosi latitanti affiliati alla ‘Ndrangheta, la liberazione di alcuni sequestrati e la risoluzione di alcuni efferati omicidi, veniva notato dall’allora Gen. Dalla Chiesa, comandante della brigata Carabinieri di Torino che gli affida numerose indagini molto delicate.
Questo rapporto continua anche dopo il suo incarico di Responsabile Nazionale del circuito carcerario; poi, alla conclusione della vicenda Moro, nel 1978, il generale Dalla Chiesa assume il comando del Nucleo Speciale Antiterrorismo e vuole il colonnello Riccio al comando della Sezione Anticrimine di Genova.
Il rapporto fra i due prosegue fino al giorno della tragica scomparsa del Generale e della moglie e non ebbe solo risvolti investigativi, ma anche personali e di affetto.
Alle sue dipendenze il colonnello Riccio gestisce i maggiori collaboratori, primo fra tutti, Peci, partecipando a numerose operazioni e missioni investigative anche al di fuori della Liguria. Nell’ambito di queste attività consegue anche la medaglia d’argento al valore militare.
Prosegue nel suo servizio dapprima sempre nei Reparti Speciali Anticrimine e poi al ROS, svolgendo operazioni nei confronti sia del Terrorismo Nazionale che Internazionale, vedi indagine Achille Lauro, cellula terroristica Hendawi, responsabile di numerosi attentati esplosivi, sia della Criminalità Organizzata di livello anche internazionale, contrastando, quindi, anche i traffici d’armi e di stupefacenti, non dimenticando sempre la liberazione di sequestrati, primo fra tutti la minore Patrizia Tacchella. E’ questa l’ occasione in cui Riccio conosce personalmente De Gennaro.
Tra le varie inchieste anche quelle sulla mafia siciliana, in particolare le connessioni relative all’appalto del Casinò di Sanremo negli anni ‘80 e quella contro gli affiliati della Famiglia di Bolognetta, i Fidanzati.
Dopo queste esperienze passa alla DIA dove riceve dal Dr. De Gennaro l’incarico di dare vita all’inchiesta che denomina «grande Oriente», dal nome in codice della fonte, «Oriente», aggiunge il termine «grande», con riferimento agli ambienti massonici che erano uno dei contesti principali dell’indagine e pericolosa continuità per il bene dell’Istituzione. Il resto è storia o cronaca.


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