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Continuano le rivelazioni del pentito Luigi Ilardo, ucciso da Cosa Nostra

di Michele Riccio

Proseguiamo, dai numeri precedenti, nella ricostruzione della vicenda di Luigi Ilardo, confidente del ROS, che, con il suo contributo, ha reso possibile la cattura di numerosi latitanti di grosso calibro facenti parte di Cosa Nostra. Sarà il colonnello dei carabinieri Michele Riccio stesso, che ha raccolto in prima persona le dichiarazioni di Ilardo, a condurci nello studio del caso, che cela, a nostro avviso, importantissime informazioni, non solo sulla vita occulta dell’organizzazione e del suo capo indiscusso, Bernardo Provenzano, ma anche sugli intrecci esterni che coprono da sempre Cosa Nostra.

Non era molto facile vivere quei giorni e cercando di non dare retta ai tanti pensieri che subdolamente o all’improvviso si affacciavano nella mia mente, sfruttando qualche inopportuna occasione, tentavo di affrontare i vari momenti giorno per giorno.
Ero perfettamente cosciente che la scelta fatta, di non seguire l’indicazione del mio Superiore, il Col. Mori, di convincere l’Ilardo a collaborare solo con il Dr. Tinebra escludendo il Dr. Caselli, mi avrebbe definitivamente qualificato “non affidabile”. Ma non avrei tradito un credo ed una persona che aveva affidato la sua dignità e la sua vita nelle mie mani, certo della mia lealtà all’Istituzione.
Quando avevo iniziato questa indagine sapevo benissimo delle tante difficoltà e problemi che avrei dovuto affrontare, ma mai avrei pensato che un giorno mi sarei trovato da solo di fronte ad una simile decisione che avrebbe segnato un momento fondamentale della mia vita.
Era inutile provare ad immaginare mille scenari nell’illusione di allontanare la realtà, come se per caso avessi seguito, tempo prima, il consiglio del solito superiore di gestire l’indagine come una normale ricerca latitanti. Dimenticando il suo vero fine, la ricerca di quelle collusioni esterne a Cosa Nostra e di quei mandanti esterni responsabili di tanti attentati stragisti ed omicidi eccellenti.
Così come indurre Ilardo alla latitanza. Forse lo scenario sarebbe potuto cambiare, questi già tratto in arresto da qualche “zelante e fortunato investigatore”, costretto ad assumere autonome decisioni in un mutato ambiente, ricco di tanti consigli, tutte fantasie. La scelta con Luigi invece l’avevamo già fatta sin dal primo momento che ci eravamo parlati, era ben chiara ed era il traguardo della nostra vita.
Il resto non era “nostra” competenza.
Era tutto chiaro e le parole di Macchiavelli in uno dei tanti libri che mi accompagnavano ed aiutavano a superare le attese che segnavano ogni missione in Sicilia, “…era inutile pensare di affidarsi alla fortuna, sperando che questa risolvesse ogni problema, ciò è vero solo in parte, l’uomo non è alla mercè dei venti e delle onde, egli deve scegliere la sua rotta e seguirla senza rinunciare alla lotta..” mi sembrarono la risposta migliore ai miei pensieri.

Discorsi
In quei giorni tutti erano prodighi di consigli e di attenzioni nei miei confronti, al ROS. C’era fervente attesa nel futuro, che sembrava alimentare grandi speranze. La lotta alla Mafia però non mi sembrava più essere una priorità ed intesa come un tempo. Ora vedevo che l’impegno maggiore era dimostrare che un certo Metodo fosse stato comune a tutti. Quello era la vera priorità.
Il mio dire che Cosa Nostra aveva già avviato la sua trasformazione, inabissandosi, operando una maggiore selezione dei suoi affiliati anche in considerazione delle future esigenze, riaffermando quella politica gestionale tanto cara a Provenzano ed agli ambienti di suo riferimento che volevano una Organizzazione più propensa agli affari e colloquiante con le Istituzioni, meno sanguinaria, era ascoltato con sufficiente cortesia.
Inutile dire che presto si sarebbe dovuto affrontare un nemico ancor più pericoloso ed invisibile. Ponendo attenzione ad un nuovo che sarà sicuramente condizionato dalle scelte che avremo fatto, inutile era ancora ricordare che non si muore solo uccisi con le armi.
Provenzano era solo un criminale, sì latitante e pericoloso che sicuramente aveva goduto in passato di protezioni e forse qualcuna ancora tuttora, ma sicuramente era stato anche fortunato e prima o poi come tutti sarebbe stato arrestato.
Nell’evidenza delle prove, i suoi complici e chi aveva fatto affari con lui sarebbe stato perseguito, anzi quest’ultimo settore presto avrebbe ricevuto maggiore attenzione, sarebbe stato creato un apposito comitato con il compito di supervisionare l’assegnazione degli appalti in Sicilia, con il supporto anche delle relazioni degli organi centrali di polizia, che già avevano al loro interno personale specializzato in questo settore.
Evidenza di ciò erano i tanti rapporti mafia ed appalti già fatti. Come dire gli uomini giusti al posto giusto.
Ora era fondamentale che la Polizia Giudiziaria riassumesse l’autonomia delle indagini, così come la Politica era in dovere di riappropriarsi di quella libertà decisionale e d’azione che le era stata sottratta.
Grandi progetti e clima di grande impegno, come quello, pensavo, che avevo visto allorquando si parlava dell’idea di realizzare una Super Procura Nazionale ed una nuova Polizia super specializzata, che avesse le caratteristiche e le prerogative della FBI Americana. Come l’esclusiva competenza dei reati federali, idea tanto cara agli On. Martelli del PSI e Scotti della DC.
In questo ritorno al passato, ora, c’erano tutti i vecchi attori ed i loro clan di appartenenza, in ogni ordine e settore di posto, mancavano solo Falcone, Borsellino ed ora si è aggiunta anche la DIA. Allora mi viene spontaneo l’accostamento di quei criteri della selezione nella ricerca della migliore affidabilità, nell’impossibilità di realizzare la Teoria degli automi di Von Neumann, ciò per garantire e garantirsi Stabilità e Privilegi.
Ed eccoci allora ancora pronti a diffondere, per chi ne aveva bisogno, analisi e ricette.
L’ideologia trasversale ha inquinato l’Italia ed è prossima al punto di non ritorno e si avvicina pericolosamente al limite oltre il quale la lotta politica diventa una incontrollabile guerra civile fredda e coinvolge tutti i poteri dello Stato.
Credo che in Italia l’antistato non sia solo un intreccio perverso tra criminalità organizzata e politici di maggioranza, l’antistato è nato come prodotto anche della furbizia, l’integrazione in certi casi dell’opposizione nel governo, opposizione che invece di controllare ha fatto finta di fare opposizione. Lucrando potere, denaro e sacrificando la questione morale per andare a braccetto con la mafia e sostenere false guerre.
Lottizzare il potere, corrompere l’opposizione invitandola al banchetto è diventato, negli anni, normale pratica politica.
Catania e dintorni
Quelle sere di fine aprile 1996 incontravo più volte Ilardo. Ormai era imminente la nostra convocazione a Roma, così era stato concordato per ragioni di sicurezza. Nell’aria avvertivo una certa attesa, ma lui non mostrava alcun segno di tensione, era sereno e deciso allo stesso tempo.
Non aveva disatteso a nessun appuntamento, sia con quelli della sua Famiglia che con il resto dell’Organizzazione, così come aveva portato a termine ogni incarico ben attento a non commettere errori e dando la sua consueta immagine. In quei giorni aveva incontrato ancora la Giovanna Santoro, la moglie del cugino Piddu. Era rientrata da Cuneo, dove aveva fatto visita al marito ristretto presso quel carcere di massima sicurezza. La donna non aveva potuto parlare con sufficiente tranquillità con il marito, perché i colloqui erano avvenuti per interfono e nel timore di essere ascoltati aveva preferito rimandare ogni discorso sulla Famiglia. Nei prossimi giorni il Piddu, come le aveva fatto presente, sarebbe stato trasferito in Roma per partecipare ad alcune udienze del processo per la strage di Capaci. Quella sarebbe stata l’occasione per colloquiare più riservatamente. Già altre volte avevano sfruttato quell’opportunità. Piddu, come tanti altri capi mafiosi soggetti ai vincoli del 41 bis che limitava notevolmente i loro rapporti con l’esterno, sfruttavano l’occasione di partecipare ai tanti processi che li portavano in giro per l’Italia per aggirare quell’ostacolo e così essere informati degli eventi delle loro Famiglie e dare direttive in merito.
I vari mafiosi ristretti in quel regime di massima sorveglianza, ora erano molto attenti anche nel seguire e cercare di aggravare strumentalmente qualche loro problema di salute, per conseguire in tempi non eccessivamente lunghi benefici come la detenzione in strutture cliniche o l’incompatibilità con il regime carcerario. Il cugino Piddu, per accreditare l’immagine di un peggioramento del suo stato di salute, aveva iniziato a presentarsi alle varie udienze nei tanti processi appoggiandosi ad un bastone per meglio camminare. La Santoro lo aveva invitato ad accompagnarla, come già aveva fatto con la Maria Stella che era ben contenta di rivedere e parlare con il fratello. Lui come in altre occasioni per prudenza avrebbe atteso fuori dal Tribunale.
La parente più tranquilla e propensa così a fare delle confidenze gli aveva fatto comprendere che il vero motivo della sua furente reazione alla notizia della morte del Maurizio Monreale non era dovuto a sentimenti di affetto o di considerazione per il giovane affiliato ucciso, ma era dettato solo da motivi di puro interesse. Il Monreale, in quei giorni, le aveva comunicato che doveva ottenere dal Tribunale di Gela la restituzione di quei 50 milioni di lire che gli erano stati precedentemente sequestrati dalla polizia - che lo aveva fermato in un controllo stradale - e trovati a bordo dell’auto su cui viaggiava e dei quali non aveva saputo giustificare al momento la provenienza.
Quel denaro di pertinenza della Famiglia, la Santoro e l’Anna Rinzivillo lo stavano attendendo con ansia per pagare le spese più urgenti per la difesa dei rispettivi mariti. La cugina gli aveva ancora confidato che ai legali del Piddu, fino a quel momento, aveva dato più di un miliardo e quattrocento milioni di lire. Al che lui per aiutarla le aveva promesso che nei prossimi giorni le avrebbe procurato 15 milioni di lire.
Gli era stato riferito che il Saro Trubia, l’organizzatore dell’omicidio del Monreale, in quei giorni, temendo l’emissione di qualche provvedimento restrittivo, aveva preferito darsi alla latitanza e non era l’autore del predetto omicidio, il giovane, fermato in quei giorni dalla Polizia.
Gli esecutori erano altri due giovani di un dispositivo composto da altre due squadre di “carusi” che, a bordo di motorini, avevano pattugliato più zone di Gela solitamente frequentate dal Monreale, finché una di loro non l’aveva incontrato e così assassinato.
Uno dei due attentatori, poco tempo prima, era stato arrestato per il possesso di qualche dose d’eroina, mentre l’altro era l’amico con il quale solitamente si accompagnava e che si doveva chiamare Salvatore “Totò”.

Gli imprenditori
Quella sera era piuttosto stanco. Si era recato anche nella provincia di Messina dove aveva incontrato il suo referente del posto, quel Sem, così chiamava Salvatore Di Salvo, il mafioso di Barcellona Pozzo di Gotto che insieme ad altri due suoi complici aveva preso le redini dell’organizzazione del Gullotti dopo che questi, già latitante, era stato tratto in arresto dalla polizia.
Il Sem era quello del gruppo preposto alla gestione dei rapporti con le ditte che operavano in quella provincia, seguendo l’assegnazione degli appalti, concordando e verificando il regolare pagamento del pizzo. Ed a lui si era rivolto per risolvere i problemi della Demoter (demolizioni movimento terra) di Messina, come Provenzano già da tempo gli aveva chiesto di seguire.
Il Sem era direttamente in contatto con il vertice della società, l’ingegnere Di Borrella, che provvedeva al pagamento della protezione. Ed alla mia domanda, come si potesse eventualmente stabilire da un controllo dei registri contabili che una ditta effettivamente era soggetta ad estorsione, Ilardo mi riferiva che era l’ufficio o la persona preposta all’amministrazione a modificare i bilanci dell’impresa. L’ammanco veniva regolato con le stesse modalità utilizzate per occultare le tangenti ai politici o la corruzione dei funzionari per ottenere l’assegnazione di un appalto. In bilancio venivano riportate fatture maggiorate o quelle relative a lavori eseguiti non regolarmente come invece attestato indicando sovente anche materiali diversi da quelli menzionati, ovviamente più scadenti. La Demoter ho visto che in questi ultimi anni ha progressivamente monopolizzato le commesse pubbliche e private nel settore della movimentazione terra nella provincia messinese e non è solo quello il campo d’azione della società, che opera anche la realizzazione di acquedotti, discariche, lavori stradali  e ferroviari.
La Demoter, con altre società sorrette anche dall’appoggio di politici locali, in questi anni duemila ha intensificato e variegato i suoi interessi non solo in campo locale, ottenendo appalti miliardari, ma ha operato anche in ambito nazionale ed internazionale e vanta committenti di prima importanza, quali la Saipem del Gruppo ENI, le Ferrovie dello Stato, la Snamprogetti ed altri.
Ovviamente la società Demoter tuttora è vessata da estorsioni ed attentati di vario genere, come emerge dalle varie inchieste giudiziarie.
Leggere tutto ciò mi ha fatto ricordare quello che diceva Ilardo nei confronti delle imprese e delle persone che le dirigevano.
Ilardo mi sottolineava il ruolo sempre più importante che avrebbero assunto gli imprenditori per Cosa Nostra e ciò non solo per il denaro che potevano dare o investire, ma, oltre a costituire altro tramite per gli ambienti Istituzionali di riferimento, stavano in quel tempo strumentalmente alimentando la protesta delle loro maestranze attraverso l’azione di loro referenti interni.
Stavano accreditando che le difficoltà gestionali e le minori commesse di lavoro, che in più di un caso avevano condotto alla cassa d’integrazione o al licenziamento degli operai, erano conseguenza della indiscriminata lotta alla Mafia condotta dai Magistrati che, paventando anche collusioni ed interessi in ogni settore, specie in quello politico – istituzionale, avevano compromesso, ed in molti casi pregiudicato, ogni relazione.
Strategia che mirava a delegittimare la lotta alla mafia, creare così instabilità politica ed alimentare quello scontro che progressivamente stava venendo alla luce con quello che già chiamavano il partito dei magistrati, e propagandavano l’affermazione di Forza Italia e della realizzazione di uno schieramento con altri partiti.
Il primo impegno promesso a favore di Cosa Nostra sarebbe stata la riduzione dei termini per la carcerazione preventiva.

Ancora guerra
Sempre pensando all’imminente incontro con i magistrati, chiedevo se avesse notato un diverso atteggiamento nei suoi confronti dalle persone che stava incontrando in quei giorni. Invece tutto sembrava procedere come sempre, ma per non farsi cogliere di sorpresa mi riferiva che aveva incontrato ancora una volta quel suo esclusivo contatto, il parente del boss Farinella Domenico.
Nel ricordare che l’aveva indicato come il terzo mandante mafioso degli attentati stragisti, gestore con quel Michelangelo Alfano di propri contatti con il solito contesto Istituzionale deviato, cercavo nuovamente di porre ulteriori domande.
Anche questa volta rimandava ogni discorso al momento in cui avrebbe iniziato la sua collaborazione con l’Autorità Giudiziaria, ciò per sicurezza personale. Ed a sottolineare l’importanza di quello che avrebbe detto, affermava che “dietro Bagarella c’erano delle entità”.
Non avevo il tempo di soggiungere nulla a quell’ultimo messaggio che già eravamo giunti con la sua auto nei pressi della stradina non tanto lontana dalla sua proprietà, dove avevo parcheggiato poco più avanti, nello spazio riservato ad un vecchio e malandato ristorante, la mia macchina.
La sera successiva, quando c’incontravamo, non riuscivo a riportarlo ad affrontare quel tema così bruscamente interrotto. E neanche la mia promessa di non farne menzione ai miei superiori così come mi aveva già pregato di fare per la sua sicurezza aveva successo.
Fermava definitivamente ogni mia insistenza quando mi chiedeva di avere ancora un po’ di fiducia in lui e che non avrebbe deluso le mie attese, ma preferiva prima entrare nel programma di protezione con la sua famiglia e poi affrontare quelle tematiche. E di fronte a quella giusta richiesta non potevo aggiungere altro.
Mentre percorrevamo quelle strade senza luce che circondavano la zona industriale di Catania, cercando con scarso successo di evitare le tante buche nell’asfalto, sfruttando la poca luce emessa dalle insegne dei capannoni e di qualche locale, mi riferiva che aveva visto il Quattroluni “Lello”.
Aveva incontrato il responsabile della Famiglia del Santapaola perché gli aveva chiesto un favore per risolvere i problemi di un suo amico di Catania, proprietario di una ditta di trasporti che in quei giorni gli aveva prestato dei soldi per concorrere all’asta della proprietà di Lentini.
Il Lello gli aveva pertanto promesso il suo intervento per far cessare quegli attentati incendiari di natura chiaramente estorsiva che avevano distrutto già tre camion del suo amico.
Il Lello gli aveva confidato che stava fermamente valutando la possibilità di darsi alla latitanza e già da qualche giorno non si recava più presso la sua abitazione perché aveva il timore che stessero per emettere nei suoi confronti qualche provvedimento di restrizione in carcere.
Per qualche tempo si sarebbe trasferito in Caltagirone presso suo zio Vittorio.
Dopo quell’incontro, nel recarsi in una delle campagne non lontane da Lentini, presso suoi amici pastori, per comprare alcune forme di formaggio da regalare, aveva incontrato casualmente il Privitera Orazio con un paio dei suoi uomini.
Il latitante e leader degli Sciuto gli aveva confidato di essere notevolmente in difficoltà in quei giorni perché i suoi avversari, tra i quali i Laudani detti “i mussi di ficurinia” , gli stavano facendo terra bruciata intorno.
Giorni prima, con alcuni suoi uomini anche loro ricercati, si era rifugiato in un villino vicino Vaccarizzo e con lui c’era anche Vittorio Salvatore, altro mafioso di Catania che in passato aveva operato in Milano alleandosi con i Cursoti, quando per poco non era stato sorpreso dall’irruzione dei suoi avversari. Con una furiosa e violenta sparatoria era riuscito a sganciarsi e colpire a morte uno degli assalitori, che per quanto aveva poi saputo era stato abbandonato in quel luogo.
Ora per non dare un preciso riferimento agli avversari erano costretti ogni sera a cambiare ovile per dormire, ospitati da servi pastori che li aiutavano senza dire nulla ai loro padroni. E nel pomeriggio transitando vicino ad un ovile di altro loro amico, tale Cosentino, avevano visto da lontano appostata la polizia che evidentemente era a conoscenza di quel legame di amicizia. Non si era avvicinato ed aveva cambiato zona, ma ora era in apprensione per la sorte dell’amico, perché sarebbe diventato presto un obiettivo dei suoi nemici che in un attimo sarebbero stati informati dell’appostamento delle forze dell’ordine. A conferma dei timori del Privitera Ilardo, giorni dopo, mi riferiva che il Cosentino era scomparso, sicuramente ucciso dagli avversari degli Sciuto ed il corpo fatto sparire. Privitera, sempre più fuggiasco, ora si aggirava nelle campagne di Contrada Lupo, di Militello e di Vizzini, sempre ospite occasionale di pastori come Cinardo Giovanni che lo aveva informato di queste ultime novità.
E parlando sempre di latitanti, le ultime informazioni che lo avevano raggiunto su Cammarata Giuseppe di Riesi lo indicavano nascosto già da qualche tempo in San Michele di Genzaria, sotto la protezione di Francesco La Rocca.

Verso Roma
L’ultima sera prima di concordare il nostro incontro di lì a qualche giorno in Roma per procedere alla riunione con i Magistrati nella sede del Comando del ROS, fu spontaneo parlare né di Cosa Nostra e né di quello che ci poteva riservare l’imminente futuro. Decidevamo di andare a mangiare qualcosa insieme, come da tanto tempo avevamo detto ma mai potuto fare, ma prima passavamo per la sua fattoria di Lentini, per vedere gli ultimi progressi dei lavori per renderla meglio abitabile e più funzionale al lavoro dell’allevamento dei cavalli e del bestiame. La fattoria ci accolse già da lontano con le sue intense luci gialle che ci guidavano con un faro nel buio più nero di quelle campagne che la circondavano nel più assoluto silenzio, con un bip del telecomando faceva scorrere sui binari l’alto cancello di ferro. Ed eccoci entrare nel vasto cortile accolti già dai primi nitriti dei cavalli che scalpitavano non lontani nelle stalle di pietra. Con aria contenta lo vedevo aggirarsi tra i box mettendo a posto ora qualche cinghia o controllando lo stato di qualche cavallo, fermandosi un po’ di più dai suoi preferiti, ai quali faceva qualche carezza sui lunghi colli che piegavano soddisfatti. Dopo andavamo nella abitazione. Era già diversa dall’altra volta, l’ampia cucina di campagna più accogliente e completa, le scale che portavano al piano superiore, dove fervevano gli ultimi lavori, erano in ordine e ben rifinite.
Dato un veloce ed affettuoso saluto al vecchio padre, già insonnolito, che seguiva distrattamente i programmi della televisione in compagnia di un fattore anziano quanto lui, si andava a mangiare qualcosa in un anonimo ristorante verso Siracusa. Parlavamo del futuro, di quello che si desiderava per i nostri cari e che non si vedeva l’ora di condividere, parlavamo dei progressi dei nostri figli e di quanto fossero diventati più grandi, come i suoi due gemelli, che giorno dopo giorno gli somigliavano sempre di più e che promettevano di diventare ancora più alti e robusti di lui.
Mi pregava infine, ora che stavo per ritornare a casa per qualche giorno, di salutare mia moglie e di ringraziarla per tutte le volte che l’aveva chiamata senza mai presentarsi, lasciando solo un breve messaggio da riferirmi e che solo io potevo comprendere.
“Oggi Colonnello, se ho la fortuna di avere finalmente vicino la mia famiglia e un futuro che non saprà più di Mafia lo devo anche a voi” e nel dire ciò, con un veloce bagliore che gli vedevo per un attimo attraversare negli occhi, mi consegnava una foto dei gemelli per portarla a mia moglie.
La mattina successiva ero già a Roma, avevo appena il tempo di entrare in caserma quando incontravo il Col. Mori ed i suoi. Immediata era la domanda se Ilardo si sarebbe comportato come richiesto nello scegliere quale suo unico interlocutore il Dr. Tinebra di Caltanissetta nella sua preventivata collaborazione con la Giustizia, rassicuravo i presenti che tutto si sarebbe svolto come chiesto.
Dopo poco dovevo telefonare e confermare quanto detto anche al Magistrato di Caltanissetta, disposizione che eseguivo alla presenza di un collega e nell’occasione rappresentavo quanto poco prima mi aveva riferito il capitano del ROS di Caltanissetta che mi aiutava sul territorio siciliano.
Questi era rimasto un po’ perplesso da come era stato gestito il fascicolo dell’Ilardo prima dal tribunale di Messina e poi una volta trasmesso dal Tribunale di Sorveglianza di Caltanissetta, perché nonostante la riservatezza con la quale avevamo contattato giorni prima il Dr. Vaccarezza della Procura di Messina, seguendo le disposizioni del Dr. Tinebra, la pratica era stata poi gestita dai rispettivi cancellieri, che a detta del collega avevano compreso la particolarità del caso.
Il Dr. Tinebra mi rassicurava che aveva seguito personalmente l’iter burocratico e che aveva completa fiducia dei suoi collaboratori. E che quella gestione del tutto normale era la miglior tutela della sicurezza dell’aspirante collaboratore. Velocemente completavo gli ultimi impegni di lavoro ed aggiornato il Col. Mori di ogni novità, sviluppo ed acquisizione informativa e confermato che la mattina del giorno 2 Maggio avevo già concordato un incontro con Ilardo a Roma, per poi accompagnarlo discretamente in caserma, finalmente potevo raggiungere per due giorni la mia famiglia. Mia moglie con gioia accoglieva la foto dei gemelli, che tuttora è sempre dinanzi i nostri occhi, così come ci accompagnerà sempre il ricordo della persona Ilardo e due giorni dopo, poco prima di vedermi allontanare superato il posto di controllo all’imbarco del volo per Roma, trattenendomi per un attimo con la mano ferma sul mio braccio mi diceva: “Ricordati che crede in te, non lasciarlo solo”.

L’incontro
Una volta in Roma, Ilardo puntuale mi raggiungeva dove già lo attendevo con ansia e dopo aver consumato insieme un veloce toast, con la mia macchina raggiungevamo il ROS ed andavamo ad occupare una saletta nella palazzina comando accanto alla sala riunioni, che a momenti ci avrebbe visto incontrare i Magistrati Siciliani. Il frastuono di un elicottero che si fermava in volo sulla nostra verticale, ci segnalava l’arrivo dei Magistrati quando nel mentre vedevo passare davanti all’ufficio il Col. Mori, era un tutt’uno chiamarlo e presentargli Ilardo.
Nella scena di un film che mai dimenticherò, Ilardo, senza salutare il Superiore, gli andava deciso incontro e sovrastandolo con la sua figura che mi sembrava ancora più imponente, con parole che risuonavano chiare e secche come schiocchi di frusta, gli diceva: “…. Molti attentati che sono stati addebitati esclusivamente a Cosa Nostra, sono stati commissionati dallo Stato….”
Per un attimo rimanevamo tutti e tre fermi e in silenzio, poi vedevo il Col. Mori, senza dire una parola, veloce come il lampo, senza alzare gli occhi da terra voltarsi improvvisamente ed altrettanto velocemente lasciare la stanza.
Frastornato dall’avvenimento con un freddo sudore che sentivo scendere lungo la schiena quando stavo per articolare una domanda, l’entrare di un carabiniere con la richiesta di trasferirci immediatamente nella stanza attigua dove ci attendevano i Magistrati siciliani rimandava ogni mia parola. Nella prosecuzione di quel film che stava già cambiando a mia insaputa la mia vita e quella della mia famiglia, dopo aver chiuso la porta alle nostre spalle, vedevo Ilardo alzarsi con molta calma dalla sedia già collocata di fronte ai Magistrati Dr. Caselli e Principato della Procura di Palermo e il Dr. Tinebra della Procura di Caltanissetta e con altrettanta calma riposizionare la sedia di fronte al Dr. Caselli e dopo essersi seduto con decisione e chiarezza  dire :
“……Mi chiamo ILARDO Luigi, sono nato a Catania il 13. Marzo 1951, sono il Vice rappresentante Provinciale della Famiglia di Caltanissetta e ricopro anche l’incarico di Capo Provinciale, in quanto Vaccaro Domenico è attualmente detenuto……………Dr. Caselli…. ho completa ed incondizionata fiducia nella sua persona,…. nel suo ufficio e nel Col Riccio…. ed ho deciso di collaborare con la Giustizia….”


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Il colonnello dei carabinieri Michele Riccio

Il colonnello Michele Riccio inizia la sua carriera quando, dopo aver operato in Sardegna e sul confine Iugoslavo al comando della Tenenza CC. di Muggia (TS), nell’ottobre del 1975, viene trasferito al comando del Nucleo Investigativo CC. di Savona.
In seguito ad alcune fortunate operazioni di servizio che vedevano l’arresto di pericolosi latitanti affiliati alla ‘Ndrangheta, la liberazione di alcuni sequestrati e la risoluzione di alcuni efferati omicidi, veniva notato dall’allora Gen. Dalla Chiesa, comandante della brigata Carabinieri di Torino che gli affida numerose indagini molto delicate.
Questo rapporto continua anche dopo il suo incarico di Responsabile Nazionale del circuito carcerario; poi, alla conclusione della vicenda Moro, nel 1978, il generale Dalla Chiesa assume il comando del Nucleo Speciale Antiterrorismo e vuole il colonnello Riccio al comando della Sezione Anticrimine di Genova.
Il rapporto fra i due prosegue fino al giorno della tragica scomparsa del Generale e della moglie e non ebbe solo risvolti investigativi, ma anche personali e di affetto.
Alle sue dipendenze il colonnello Riccio gestisce i maggiori collaboratori, primo fra tutti, Peci, partecipando a numerose operazioni e missioni investigative anche al di fuori della Liguria. Nell’ambito di queste attività consegue anche la medaglia d’argento al valore militare.
Prosegue nel suo servizio dapprima sempre nei Reparti Speciali Anticrimine e poi al ROS, svolgendo operazioni nei confronti sia del Terrorismo Nazionale che Internazionale, vedi indagine Achille Lauro, cellula terroristica Hendawi, responsabile di numerosi attentati esplosivi, sia della Criminalità Organizzata di livello anche internazionale, contrastando, quindi, anche i traffici d’armi e di stupefacenti, non dimenticando sempre la liberazione di sequestrati, primo fra tutti la minore Patrizia Tacchella. E’ questa l’ occasione in cui Riccio conosce personalmente De Gennaro.
Tra le varie inchieste anche quelle sulla mafia siciliana, in particolare le connessioni relative all’appalto del Casinò di Sanremo negli anni ‘80 e quella contro gli affiliati della Famiglia di Bolognetta, i Fidanzati.
Dopo queste esperienze passa alla DIA dove riceve dal Dr. De Gennaro l’incarico di dare vita all’inchiesta che denomina «grande Oriente», dal nome in codice della fonte, «Oriente», aggiunge il termine «grande», con riferimento agli ambienti massonici che erano uno dei contesti principali dell’indagine e pericolosa continuità per il bene dell’Istituzione. Il resto è storia o cronaca.


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Provenzano sfuggì, indagato Mori

Iscritto nel registro degli indagati il generale dei carabinieri e capo del Sisde, Mario Mori, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Con lui anche un dirigente dei servizi segreti, Mauro Obinu e altri ufficiali la cui indentità è top secret. Un atto dovuto, spiega il Procuratore Grasso, in seguito alle accuse mossegli dal colonnello dei carabinieri Michele Riccio nel corso della sua lunga deposizione al processo Dell’Utri. L’ufficiale aveva riferito che, grazie alle confidenze del reggente della provincia di Caltanissetta Luigi Ilardo (di cui noi ci siamo occupati a lungo), si era arrivati ad un soffio dalla cattura di Bernardo Provenzano, ma il suo superiore, Mori appunto, gli avrebbe ordinato di limitarsi ad una attività di osservazione in quanto in quel momento non erano diponibili gli strumenti necessari alla cattura del boss. Così il 31 ottobre 1995 a Mezzojuso Ilardo si incontrò con il superlatitante e Riccio, con i suoi uomini, attesero nella campagna circostante. Abbastanza a lungo per indicare riferimenti precisi al comando sì da potere effettuare un sopralluogo o un blitz nei giorni immediatamente successivi. Ma più volte Riccio, con grande rischio per l’Ilardo, fu costretto a tornare sul posto perché, nonostante le dettagliate informazioni, i colleghi non erano riusciti ad individuare la masserizia dove si nascondeva Provenzano. Che dopo 8 anni è ancora libero e alla testa di una Cosa Nostra, che, come aveva preannunciato ad Ilardo, proprio nell’ arco di questo tempo, sarebbe ritornata forte come prima.


ANTIMAFIDuemila N°31