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Continuano le rivelazioni del pentito Luigi Ilardo, ucciso da Cosa Nostra

di Michele Riccio

Proseguiamo, dai numeri precedenti, nella ricostruzione della vicenda di Luigi Ilardo, confidente del ROS, che, con il suo contributo, ha reso possibile la cattura di numerosi latitanti di grosso calibro facenti parte di Cosa Nostra. Sarà il colonnello Michele Riccio stesso, che ha raccolto in prima persona le dichiarazioni di Ilardo, a condurci nello studio del caso, che cela, a nostro avviso, importantissime informazioni, non solo sulla vita occulta dell’organizzazione e del suo capo indiscusso, Bernardo Provenzano, ma anche sugli intrecci esterni che coprono da sempre Cosa Nostra.


La Risiera di San Sabba
Il 27 Gennaio, non solo in Italia, ma in buona parte d’Europa, si è celebrato lo Shoah, il giorno della memoria, il ricordo dell’Olocausto, lo sterminio e la persecuzione del popolo ebraico.
Giorno che non deve costituire solo una data di commemorazione, ma, credo, momento d’amore, di riflessione. Il ricordo di 6 milioni d’ebrei sterminati, il ricordo di volti scavati dalla fame e dalle sofferenze, di mucchi di cadaveri, di camini, deve essere un impegno a non dimenticare, comprendere, analizzare i fatti e le circostanze che consentirono il verificarsi di quel vergognoso terribile passato che non deve mai più ripetersi.
Non deve costituire solo una data di commemorazione, "gestione istituzionale di un passaggio all’oblio", come non lo deve essere il giorno del ricordo della morte dei tanti assassinati dalla Mafia, caduti nell’adempimento del loro dovere per difendere ed affermare quei principi Istituzionali di uno Stato che, invece, li aveva lasciati soli.
Non si può costruire un nuovo futuro, amare la propria terra con la sua storia, se non si fa chiarezza del passato che, altrimenti, costituirà sempre inquinante eredità.
Fu il rispetto e l’ossequio di questi principi che mi accompagnò, poi, anche nelle mie indagini in Sicilia, quando quel giorno di Febbraio del 1974, tenente dei carabinieri e comandante della Tenenza di Muggia (TS), nell’esaminare i resti umani di una fossa comune, casualmente scoperta da alcuni operai nei pressi dell’ingresso principale della Risiera di San Sabba, già monumento nazionale per essere l’unico esempio di lager nazista in Italia, non condividendo le analisi degli esperti che ritenevano non si trattasse dei resti di prigionieri assassinati dalle SS tedesche all’interno di quel lager, venivo a conoscenza che nel processo ancora in corso contro i responsabili di quei crimini non vi era la prova certa del funzionamento dei forni crematori in pianta stabile.
La Risiera di San Sabba, ex stabilimento per la raffinazione del riso, mi aveva immediatamente colpito, già nel mio primo giro di conoscenza del territorio, quando pochi mesi prima ero arrivato a Trieste.
Il m.llo Scalabrin, comandante della Stazione CC di Servola, mi aveva raccontato che le SS tedesche, nel 1944, avevano attrezzato quel comprensorio a campo d’internamento e poi di sterminio. La gente di Trieste, nel vedere dall’alto camino che dominava la struttura uscire del fumo e nell’aria contestualmente disperdersi un odore dolciastro, accompagnato dalle note assordanti di una musica diffusa dagli altoparlanti, comprendeva subito quali orribili orrori si stessero perpetrando in quel momento dietro quelle alte mura di cinta.
Con Scalabrin, nonostante molti ci consigliassero di non scavare in quel terribile passato, senza onore, dove esistevano sicuramente occulte e tristi connivenze (basti anche pensare che la "repubblica di Salò", nel ‘43, aveva ceduto la città di Trieste, la Venezia Giulia ed il Friuli allo stato Nazista) decidevamo ugualmente di porre ogni sforzo per cercare di accertare la verità, trovare le prove del funzionamento di quei forni, nel solo desiderio di voler dare un giusto riconoscimento ai tanti morti, perché fossero giustamente pianti e ricordati, per vivere in pace e non far ritornare più un simile passato.
Con il sostegno del magistrato, il dott. Serbo e del nostro comandante di allora, il Ten. Col. Alessandro Marzella, ufficiale ed uomo di grande valore, la cui morte improvvisa pochi anni dopo mi colpiva profondamente, con il mio maresciallo, iniziavamo così una paziente ricerca per individuare le persone che avevano vissuto nei pressi della Risiera negli ultimi anni della seconda Guerra Mondiale.
L’informazione più accreditata ci portava a ritenere che i resti di quanti "uscissero dai forni crematori" fossero chiusi in sacchi di tela dalle SS tedesche, caricati su barche, portati al largo e poi gettati nelle acque del golfo di Trieste.
Cercare chi ci desse precisa conferma di queste operazioni, indicando il punto dove venivano gettati quei miseri resti, presto si dimostrò impresa non facile. Quei pochi che rintracciavamo nei mesi a seguire, oltre al timore di esporsi e di subire possibili ritorsioni, non davano altra conferma che la Risiera e le vie che la circondavano erano state teatro di violenti e sanguinosi scontri negli ultimi giorni di guerra tra le truppe tedesche ed i partigiani, che erano stati luoghi di prigionia, che vedevano del fumo uscire dall’alto camino accompagnato da quella musica assordante la quale lasciava ben immaginare quanto all’interno poteva accadere.
Nel ricordare ora quella sera, avverto ancora l’emozione che ci colse, facendoci quasi smettere di respirare nel timore di modificare quel momento che si stava vivendo, quando dopo aver incontrato in una buia e fumosa osteria posta vicina al porto un anziano pescatore del luogo questi, seduto davanti ad una brocca di vino nero, ci fece comprendere che sì, forse, poteva riferirci qualcosa di più preciso.
L’immediata e solenne promessa di non fare mai il suo nome, l’offerta di un’altra brocca di vino ed ecco che, dopo essersi sospettosamente guardato intorno, inizia a raccontare come un suo amico, anche lui pescatore ed ora trasferitosi in un luogo non lontano, una volta, nel corso di una delle tante serate trascorse in osteria, tra un bicchiere e l’altro di vino, nell’inseguire i ricordi, anche quelli dei giorni di guerra, gli aveva confidato, quasi a liberarsi di un peso, di aver accompagnato con la sua barca le SS tedesche in mare, per scaricare i sacchi con i resti di quanti erano stati cremati nei forni della Risiera.
Mostrando di provare ancora paura, gli aveva confidato che nell’ultimo viaggio con le SS, poco prima che queste abbandonassero la città, non era potuto andare con loro, perché si era dovuto allontanare per esigenze di famiglia ed al ritorno, giorni dopo, aveva saputo che gli altri due pescatori, anche loro impiegati in quel compito, erano scomparsi.
Era sicuro che quel racconto fosse vero perché il suo amico quella sera, ormai ubriaco, gli aveva chiesto di accompagnarlo a casa ed aprendo una vecchia scatola presa dal fondo di un altrettanto vecchio armadio gli aveva mostrato, a conferma delle sue parole, un pezzo di sapone, trafugato alle SS tedesche che a suo dire era stato fatto nella Risiera.
Superando il disgusto di quel racconto, ottenevamo il nome dell’amico e giorni dopo averlo identificato e rintracciato, con la solita cautela ed attenzione lo avvicinammo.
Anche quello fu un approccio paziente: altre sere trascorse in osteria, offrendo il solito vino, la promessa di mantenere il suo anonimato e finalmente, dopo tanto insistere, una sera, dopo il regalo di un biglietto da cinquantamila lire che rendeva più efficace il nostro far leva sui sentimenti di umanità e di giustizia, conseguivamo la promessa per l’indomani di farci accompagnare riservatamente nel punto dove, 30 anni prima, con le SS tedesche aveva eseguito quelle macabre missioni in mare.
Quella sera ottenevamo la conferma che quei resti umani effettivamente provenivano dai forni della Risiera di San Sabba ed appartenevano non solo ad ebrei giunti anche in carri piombati, ma a soldati e partigiani prigionieri di guerra, tutti fatti passare per il camino. Lui aveva provveduto anche alla raccolta di quanto rimasto nei forni, mettendo nei sacchi, mentre la musica continuava a diffondersi.
Così, un anno dopo la scoperta di quei resti umani in quella fossa comune, il 30 Gennaio 1975, grazie all’efficace e paziente impegno dei nostri sommozzatori – per diversi giorni impegnati in un duro lavoro, con l’impiego di un tubo aspirante, detto sorbona, che muovevano lungo un percorso segnato da una serie di griglie, che facilitava il lavoro di aspirazione di melma e acqua dal fondo, le quali venivano poi riversate in un enorme setaccio che tratteneva solo i vari detriti - finalmente, ecco il primo osso che, accuratamente lavato, presentava evidenti tracce di bruciature. A quello, poco dopo, si unirono dal fondo altre e tante ossa umane e protesi dentarie, tutte con chiari segni di bruciature.
Il loro esame presso l’Istituto di Medicina Legale di Trieste accertava poi, senza ombra di dubbio, che quei resti umani effettivamente presentavano tracce di combustione ed erano risalenti a circa 30 anni prima.
Quel ritrovamento costituiva la prima prova del funzionamento di un forno crematorio in pianta stabile, allestito dalle SS tedesche in Trieste, nel ‘44/’45, presso la ex Risiera di San Sabba, luogo che vide la morte di oltre 5 mila deportati e prigionieri.
Il processo si chiudeva l’anno seguente, nell’Aprile del 1976, con la condanna all’ergastolo dei suoi responsabili. La maggior parte, comunque, era già morta per cause naturali o uccisa dai partigiani. Solo il comandante della Risiera, il 63 enne Joseph Oberhauser, era rimasto in vita, abitava in Monaco di Baviera, dove era il proprietario di una birreria. Ma in regola agli accordi italo – tedeschi che non concedevano l’estradizione per i crimini commessi fino al 1948, rimase nella sua città a vendere birra.

Altra riunione con Provenzano Venti di guerra

Le feste di Natale e Capodanno passarono in un attimo, anche perché, per verificare che la situazione procedesse sufficientemente tranquilla, dopo la morte del Monreale Maurizio di Gela non mi facevo mancare l’opportunità di fare una breve sortita in Sicilia prima della fine dell’anno.
Con la ripresa delle attività, se mai c’era stata una sosta, i crescenti dubbi sulla gestione dell’operazione continuavano ad assillarmi, anche se per un attimo, alla mia ennesima domanda di come procedessero le indagini e le osservazioni su Mezzojuso e quali risultati avessero prodotto, i silenzi del ROS, questa volta sottolineati da ammiccamenti e rassicurazioni che tutto procedeva per il meglio, mi fecero pensare che forse tutta quella cappa di omertà mirasse ad attribuirsi l’esclusivo merito della cattura del Provenzano.
Non era certo il timore di essere escluso dall’azione a preoccuparmi, ma non volevo pensare che un domani tutto ciò portasse a non rispettare o riconoscere l’impegno assunto con l’Ilardo che, in quel risultato, aveva riposto tante attese. Anche nel desiderio di ridare un po’ di serenità alla propria famiglia.
Ansia che durava quanto un pugno di neve può resistere al sole. Poco dopo incontravo in Roma il gruppo degli "specialisti", più che mai delusi e contrariati per l’impossibilità di svolgere il loro lavoro. Il Superiore non aveva concesso loro i mezzi richiesti ed io, momenti dopo, nel sentirmi proporre ancora una volta dal Superiore di consigliare all’Ilardo di darsi alla latitanza, perché esisteva il fondato pericolo di un imminente provvedimento di cattura nei suoi confronti, comprendevo che nulla era cambiato e che scorreva la solita vita di sempre.
Ovviamente non facevo alcuna proposta ad Ilardo, sorte migliore non aveva anche la richiesta di affittare il fuoristrada che gli Emmanuello avevano chiesto all’Ilardo; era l’occasione per predisporre all’interno un segnalatore GPS, così da facilitare la loro cattura vista la precedente e non felice esperienza.
Era come sempre Ilardo ad assolvere l’impegno, e ben ricordo il totale fallimento dei tentativi del ROS di posizionare un efficace segnalatore sul mezzo che, nel frattempo, mi ero fatto dare da Ilardo stesso.
Ben diversi invece erano i ritmi e l’efficacia delle attività di Cosa Nostra, come avevo modo di verificare nei primi giorni di quel Gennaio 1996, quando incontravo un Ilardo piuttosto tranquillo per come stavano procedendo gli eventi, che mi riferiva dell’esito di un colloquio avuto con Lorenzo Vaccaro che, giorni prima, aveva incontrato il Provenzano.
La semplicità delle operazioni poste in essere dal Vaccaro per recarsi all’incontro e, poi, gli espliciti riferimenti al luogo della riunione che ne era seguita, gli avevano confermato che Provenzano continuava a gravitare su Mezzojuso.
Il Vaccaro aveva direttamente assolto il compito d’informare il Boss di Cosa Nostra che egli non aveva ritenuto opportuno incontrare il La Rocca fuori dal territorio di Caltanissetta per ragioni di sicurezza personale, dopo che questi, aveva rifiutato il colloquio in altra località fuori dalla comune influenza.
Provenzano aveva pertanto disposto che il La Rocca doveva essere avvertito di recarsi in territorio di Caltanissetta, chiarire ogni problema e raggiungere con l’Ilardo una concreta intesa. Ma la notizia più interessante era quella che il Vaccaro, prima di conferire con il Capo dell’Organizzazione, aveva dovuto attendere che questi terminasse una importante riunione con altri sette/otto "palermitani", tra i quali era presente anche Pietro Aglieri.
Il Lorenzo era certo che si trattasse di Aglieri perché gli era stato presentato e questi aveva non solo voluto mandare i suoi saluti ad Ilardo, ma informarsi sulla situazione della Famiglia di Caltanissetta.
Uno dei convenuti, amico del Vaccaro, gli aveva confidato che l’oggetto della riunione era quello di valutare l’opportunità di riprendere la linea operativa di Giovanni Brusca, assente all’incontro, che prevedeva la ripresa degli attentati esplosivi.
L’azione repressiva, sempre più efficace ed asfissiante, delle Forze di Polizia condotta in totale assenza di qualsiasi iniziativa delle forze politiche amiche, o ritenute tali, per far allentare quella pressione che stava sempre più pregiudicando le attività di Cosa Nostra, aveva ridato attualità a quella strategia criminale.
Questa volta si stava valutando la possibilità di compiere attentati in stile "ETA", la nota formazione terroristica basca, colpendo non persone singole appartenenti alle forze di polizia, ma dispositivi di personale, quali pattuglie, trasporti di militari in servizio, o strutture logistiche come commissariati di PS e comandi dell’Arma.
Questa strategia terroristica avrebbe potuto ben presto demoralizzare non solo gli appartenenti alle forze di polizia, ma soprattutto le loro famiglie, costringendo lo Stato, sotto la pressione dell’Opinione Pubblica, a cercare un "contatto" con l’Organizzazione per tentare di risolvere la drammatica situazione.
Informavo, come sempre, il comando ROS, non solo di questa importante risultanza e delle altre notizie acquisite, ma anche del convincimento dell’Ilardo che Provenzano gravitasse ancora su Mezzojuso.

Le Tragedie di Gela e di Enna
La situazione su Gela era più che mai in ebollizione ed i piani di guerra tra la cosca del Rinzivillo e quella degli Emmanuello erano in continuo aggiornamento. Le ultime informazioni indicavano che il Rinzivillo Crocefisso da Catania aveva inviato tre uomini armati nella zona di Gela, ma al momento non c’erano indicazioni precise su dove avessero stabilito la loro base. Questo in quanto l’Emanuele Trubia, che gli forniva assistenza e guida, si era allontanato dalla sua abitazione preferendo restare con loro nel timore di costituire il prossimo obiettivo degli uomini degli Emmanuello.
I tre Killers e l’Emanuele Trubia avevano intenzione di assassinare il Saro Trubia, il referente degli Emmanuello in Gela, e l’organizzatore dell’omicidio del Monreale, poiché questi si trovava in regime di arresti domiciliari. Stavano cercando di procurarsi delle divise da poliziotti o da carabinieri e, con la scusa di un controllo, fare irruzione nella sua abitazione e compiere il delitto.
Per evitare una pericolosa escalation di omicidi che, sicuramente, avrebbero generato una guerra aperta tra i due gruppi di mafiosi, e per non pregiudicare i piani che stava predisponendo per ottenere un altro incontro con il Provenzano, Ilardo aveva fatto giungere questa informazione al Saro Trubia che, immediatamente, aveva provveduto a blindare la porta della sua abitazione e confermato che non avrebbe mai aperto a nessun carabiniere o poliziotto, se prima non avesse avuto conferma della loro identità, telefonando ai rispettivi comandi locali di Polizia.
Il cugino Tusa Salvatore, incontrato in quei giorni, lo aveva edotto che aveva già contattato l’imprenditore mafioso di Bagheria Giammanco Vincenzo per fargli eseguire parte dei lavori in Sigonella per conto dei Madonia. Pertanto avrebbe informato al più presto il Capo di Cosa Nostra di questa novità.
I rapporti con Ferro Salvatore, il mafioso e medico oculista di Catania, proseguivano come sempre sereni, improntati in un clima di reciproca stima. Sovente si vedevano al Bar di un Autogrill AGIP molto grande, posto poco prima di giungere in Palagonia, lungo la strada detta scorrimento veloce che collega Catania con Gela, itinerario che il medico abitualmente percorreva per recarsi nelle sue campagne.
Per dare una apparente casualità ai loro incontri, avevano stabilito che l’Ilardo, quando aveva necessità di un colloquio, doveva transitare qualche giorno prima da quel Bar e chiedere riservatamente al gestore, che sapeva essere anche un prestanome del La Rocca, il giorno in cui sarebbe transitato il medico e così fissare un orario per il tardo pomeriggio o nella sera quando poi questi sarebbe ritornato verso Catania.
Per questioni urgenti doveva mandare il Tusa Antonino, il cugino agronomo ed incensurato che, vantando comuni interessi nel settore agricolo con il Ferro, non avrebbe destato alcun sospetto ad un eventuale controllo delle forze dell’ordine.
Il Ferro era più che mai entusiasta della personalità del Provenzano che giudicava intelligente, grande conoscitore dell’animo altrui che lo portava a saper gestire come nessun altro le persone, nonché saggio e lungimirante nel dispensare consigli la cui osservanza, aveva riscontrato, produceva solo benefici effetti e sollecitava Ilardo ad affidarsi completamente alle direttive del Capo di Cosa Nostra che, in quei tempi così confusi, erano più che mai utili.
Ilardo, residente in Catania, non aveva difficoltà ad incontrare anche casualmente il Quattroluni Aurelio, chiamato "Lello", il reggente della locale Famiglia di Cosa Nostra e in una di queste occasioni, oltre a salutare il solito Orazio Scalia, che accompagnava come un ombra il Lello, gli venivano presentati due altri affiliati: Pesce Francesco e Fisichella, forse di nome Orazio.
Il Quattroluni gli riferiva che, da poco, aveva rilevato un banco del pesce all’interno del mercato della città, di proprietà di altro uomo d’onore, Zucchero Nunzio, ristretto ora in carcere. Poi, dopo che si erano un po’ appartati dagli altri, gli aveva prospettato la possibilità, rifiutata, di ottenere delle armi da fuoco più idonee a perforare le strutture blindate, grazie ad un loro contatto all’interno della base di Sigonella, un militare americano, un sergente od altro graduato.
Il Lello gli aveva ancora confidato, sottolineando che quella era la voce più accreditata e non lontana dalla verità, che la morte della moglie di Santapaola era stata voluta dalla sua stessa Famiglia perché, a quanto sembrava, la donna, sconvolta e preoccupata dalla detenzione dei due figli, temendo una lunga carcerazione per favorire la loro posizione giudiziaria aveva cercato di far pentire il marito Nitto.
Nel porre in atto questo disegno si era rivolta al Vescovo di Catania, scelto come consigliori o come tramite, e da quanto poi era emerso, il religioso, preoccupato dalle condizioni e dalle intenzioni della donna, aveva informato i suoi familiari innescando indirettamente la tragedia.
Giorni dopo raggiungevo Ilardo nei pressi di un villaggio turistico posto nelle immediate adiacenze dell’autodromo di Pergusa (EN). Ormai stavo sempre più imparando a conoscere la Sicilia e non mancavo di farglielo notare ed al suo sguardo interrogativo subito aggiungevo che ero contento e curioso di conoscere sempre nuovi luoghi perché, quella terra, ogni giorno che passava, mi piaceva sempre di più.
Riprendendo immediatamente i nostri soliti discorsi, avevo la possibilità di conoscere un’altra pagina della vita quotidiana di Cosa Nostra, segnata dalla più classica delle sue tragedie, come sempre piena di risvolti e di insidie. Ilardo era stato chiamato dal La Placa Salvatore e da Mattiolo Giovanni, rispettivamente Capo Provinciale e Capo Mandamento di Enna, per chiarire le accuse di espansionismo poste in essere dalla Famiglia Madonia sulla provincia di Enna. Accuse che ambienti di Cosa Nostra di Catania avevano fatto circolare strumentalmente.
Ben intuendo di dover affrontare un’altra manovra losca del La Rocca, si era presentato alla riunione con il fido Barbieri Carmelo ed aveva fatto bene a portarsi dietro anche alcuni dei bigliettini (che in seguito mi avrebbe dato), su cui erano riportate le disposizioni del Provenzano di occuparsi di alcune delle problematiche ed appalti di quella provincia, come suo rappresentante ufficiale.
Nell’evidente buona fede dei rappresentanti della Famiglia dei Madonia, i due ennesi si scusavano ed il Mattiolo, nello spiegare lo stato d’incertezza ed anche di diffidenza in cui erano caduti nei confronti della vicina Famiglia, riferiva che due uomini di Aidone, vicini a La Rocca, gli avevano confidato di essere venuti a conoscenza da un appartenente ai Madonia, la cui identità una volta nota avrebbe costituito una vera e propria sorpresa, che i vertici della sua Famiglia stavano progettando di far uccidere lui ed il La Placa Salvatore, per essere poi sostituiti da persone più vicine a Caltanissetta.
Ilardo aveva confutato energicamente ed esaurientemente anche questa assurda voce e, mostrando sempre i pizzini del Provenzano, aveva dato preciso riscontro alle sue parole, evidenziando le disposizioni del Capo di Cosa Nostra che gli richiedeva di prodigarsi, interessando anche le vicine Famiglie di Enna e Catania, affinché si raggiungesse al più presto un clima di tranquillità, senza scontri tra gli affiliati, tanto necessario in quel tempo per il futuro dell’Organizzazione.
Mattiolo, nel rinnovare le sue scuse, aveva promesso, per dimostrare che quanto da lui detto era dovuto alle altrui insinuazioni, che in un prossimo incontro, previsto a giorni, avrebbe rivelato l’identità del personaggio della Famiglia dei Madonia, a lui ora nota, che aveva messo in giro simili idiozie. Nonostante questa dichiarazione Ilardo era certo che non esistesse alcun calunniatore. Tutto ciò, per lui, era altra manovra inquinante del La Rocca, interessato in quei giorni ad escludere i Madonia dai ricchi appalti che si stavano aggiudicando in Raddusa (EN) per la discarica dei rifiuti ed in Sigonella (CT).
Quello stesso giorno, rientrando da Enna, nel pomeriggio si era recato con una certa urgenza in Niscemi (CL), chiamato da altri suoi amici che gli avevano fissato la nuova data dell’incontro con il La Rocca, dato che il mafioso aveva rimandato quello già concordato poiché non aveva superato i postumi di un incidente stradale occorsogli giorni prima. Con non poca sorpresa aveva ritrovato ad attenderlo il La Placa Salvatore.
Il Mafioso ennese, senza preamboli e con manifesta sincerità, aveva ribadito la sua incondizionata fedeltà alla Famiglia Madonia ed ora chiedeva il suo aiuto per contrastare le manovre di altro uomo d’onore della sua Famiglia, Varella Sebastiano, che mirava a sostituirlo nel ruolo di Capo Provinciale di Enna.
Il Varella, con il sostegno del Mattiolo Giovanni, amico da tempo, lo aveva già messo in discussione, affermando che egli era una persona di nessuna caratura ed il recente arresto di suo fratello Lillo aveva ulteriormente accentuato la sua scarsa incidenza all’interno della loro Famiglia. La prova del suo basso profilo era il non essere mai stato convocato da Provenzano nonostante le sue pubbliche attestazioni di incondizionata fedeltà al Boss.
Il La Placa era certo che però esisteva un altro regista di questa manovra ed era il solito la Rocca, che aveva l’interesse di allontanare la Famiglia di Enna dall’orbita dei Madonia, e così di Provenzano, ponendo al vertice una persona a lui più vicina, Il Mattiolo.
Il Mattiolo quella mattina, dopo il loro incontro, gli aveva confidato che non avrebbe mai fatto il nome del presunto calunniatore appartenente alla Famiglia di Caltanissetta. Lui, in cambio del sostegno alla sua causa, oltre a continuare ad essere uno dei più fedeli alleati dei Madonia, nella prevista prossima riunione, avrebbe obbligato il suo affiliato a fare quel nome, pena la pubblica accusa per aver detto il falso.
Ilardo era propenso a credere quanto rappresentatogli dal La Placa, perché “uomo che ‘camminava’ al fianco dell’ennese”, così chiamata in gergo la persona che solitamente accompagna i mafiosi di livello e che è a conoscenza degli stessi affari, era una fonte riservata dei Madonia e questa, giorni prima, lo aveva messo al corrente della situazione di Enna.
Le parole di Ilardo mi fecero comprendere, sempre più, quanto fosse essenziale, per i vari Capi mafiosi, possedere degli infiltrati di livello nelle altre Famiglie. Non solo per ragioni della loro sicurezza, ma per saper gestire con abilità i vari affari e Provenzano, in ciò, era il più abile di tutti.
Ilardo, al La Placa, aveva pertanto assicurato il suo aiuto e quello della sua Famiglia e, dopo la programmata riunione con il Mattiolo, alla luce degli esiti previsti, lo avrebbe accompagnato da Provenzano. Così avrebbe direttamente rappresentato le vicende della Famiglia e le manovre inquinanti del La Rocca.

Ancora Mezzojuso
Nei giorni successivi di quel mese di Febbraio 1996, incontravo più volte Ilardo, per essere aggiornato delle continue ed importanti evoluzioni delle tante situazioni in corso. Questi mi riferiva che, da tempo, stava valutando con attenzione il comportamento di Lorenzo Vaccaro, il quale gli aveva riferito di essere stato improvvisamente contattato dal noto Giovanni di Mezzojuso che, invece di consegnargli un biglietto di Provenzano con una risposta attesa, lo aveva condotto dal latitante.
Il Boss, ancora sofferente per l’espulsione di un calcolo renale, aveva voluto conoscere come stava evolvendo la situazione con il La Rocca, pregando di far sapere all’Ilardo che, nei prossimi giorni, più saldo in salute, avrebbe risolto il contrasto, organizzando poi un incontro tra i due suoi affiliati, da svolgersi come previsto nel territorio di Caltanissetta.
Nonostante le verifiche fatte nei confronti del Vaccaro Lorenzo nell’ambito della Famiglia, che gli avevano confermato la sua lealtà, riscontrata anche dal non aver manifestato alcun timore nel presentarsi agli appuntamenti nei luoghi che gli aveva imposto, dai manifesti sentimenti di amicizia e dalla volontà di condividere le sue decisioni, era ugualmente intenzionato a tenere sotto costante osservazione il comportamento dell’affiliato.
Ciò perché non aveva molto gradito il suo consiglio di richiamare nella Famiglia il Cammarata Giuseppe e di accontentarlo ponendolo nel ruolo di responsabile del mandamento di Riesi. Questo quando erano stati proprio il Lorenzo ed il fratello Domenico ad aver estromesso il Cammarata dalla Famiglia di Caltanissetta e ciò l’aveva ricordato contestualmente all’amico, sottolineando che, farlo ora senza alcun chiarimento, non era certo un loro comportamento lineare.
Lo aveva richiamato anche perché non aveva saputo ben esporre al Provenzano la delicatezza della situazione che lo contrapponeva al La Rocca, così densa di pericoli, ragion per cui importante e prioritaria la necessità di un incontro con il capo dell’Organizzazione, strumentale al nostro intento di giungere ad un secondo incontro. Anche le critiche mosse al Ciro Vara, accusandolo nell’incontro con Provenzano, di essersi completamente estraniato dai problemi della Famiglia di Caltanissetta, per non pregiudicare l’agiata condizione familiare di cui godeva, l’aveva vista come una mossa per avanzare una possibile candidatura al comando del sodalizio di Caltanissetta.
Comunque quanto avvenuto era importante, perché ancora una volta la facilità delle operazioni di accesso, i tempi ridotti impiegati per incontrare il latitante e la considerazione che il Vaccaro abitava in una zona confinante con Mezzojuso, portava ancora una volta a determinare con assoluta certezza che il Provenzano gravitasse ancora sul noto casolare con ovile.
Era ancora questa la notizia che maggiormente sottolineavo al Superiore che, come sempre, rimaneva impassibile.
Al Superiore comunicavo anche una serie di nominativi di esponenti politici, anche del passato, che la fonte in quei giorni mi aveva indicato come parte di quel panorama di collusioni mafia – politica di cui poi avrebbe più diffusamente e propriamente parlato. Questi li aveva qualificati in parte come uomini d’onore ed in parte come "vicini" a Cosa Nostra.
Nello specifico aveva indicato: Santalco, già senatore della DC di Barcellona Pozzo di Gotto; Calogero Mannino, controllato strettamente dalla Famiglia di Agrigento; Salvo Andò, in contatto con Santapaola ed Ercolano, con incontri presso il comune amico Graci di Catania; Campione Pippo, già presidente regionale dell’Antimafia; Occhipinti, avvocato; Maira Raimondo, di San Cataldo, nipote di Maira Beniamino; Coco Enzo, già senatore DC; Madaudo Dino, già sottosegretario agli Interni; Salvo Lima; Gioia Giovanni; D’Aquino Saverio, ex sottosegretario agli Interni, liberale.
Al ROS, nel vedere quei nomi, mi raccontavano che i Superiori si erano molto preoccupati nel momento in cui era giunta la notizia dell’assassinio del m.llo Guazzelli, considerato un amico dell’On. Mannino, tanto da far rientrare urgentemente dalla Sicilia il Cap. De Donno.
Ritornato in Sicilia ritrovavo Ilardo che, nel frattempo, era riuscito ad acquisire nuovi dati per consentire l’identificazione dei due personaggi di Aidone vicini a La Rocca, così come indicati dal Mattiolo. Questi due erano dei Killer, autori anche dell’attentato in cui era rimasto ferito altro mafioso di Raddusa, Vincenzo Giunta, sospettato e colpevole di essere amico dei Madonia. Il primo dei due era un rappresentante di salumi, Giuseppe Melilli, chiamato "Pino", il nome dell’altro era Gianni, erano considerati amici inseparabili anche nella vita di ogni giorno.

La Famiglia di Catania
L’informazione che Matteo Arena, ucciso in quei giorni in Catania perché, quale prestanome di Ercolano, aveva commesso uno sgarro nella gestione del patrimonio del capo mafioso, la riversavo anche ai due ispettori della DIA di Catania, con i quali ero rimasto sempre in contatto e che seguivano, come avevo chiesto al ROS, le indagini sulla Famiglia del Quattroluni (attività investigativa che avevano iniziato sin dal primo momento e non perdevano occasione nel sollecitarmi nuove informazioni con continue domande o input).
Lello Quattroluni reggeva le sorti della Famiglia etnea in una sorta di triumvirato di cui facevano parte Maurizio Zuccaro, il cognato di Santapaola e Giuseppe Mangion "Pippo" il genero di Ercolano che in quel tempo era latitante. Nonostante il qualificato lignaggio dei soci, il comando decisionale era nelle mani del Lello, non solo per essere stato il vice di Galea Eugenio, ma perché, non penalizzato da restrizione della libertà come i due soci, aveva potuto seguire con profitto e capacità tutti gli affari della Famiglia, stabilendo anche nuovi contatti ed intese.
E nuovi erano gli interessi che lo legavano ad una impresa di Palermo, già collegata ad ambienti mafiosi di livello: la Lex, ditta operante nello smaltimento dei rifiuti e degli appalti per le pulizie e l’importante filiale di Catania, con la quale aveva già in corso lavori nel comune di Mascalucia (CT), dove aveva aperto altro ufficio.
Il responsabile della Lex di Catania abitava in un piccolo e confortevole appartamentino posto all’ultimo piano dell’Hotel Nettuno di Catania, messogli a disposizione dal proprietario o dal direttore dell’Albergo, che era un "avvicinato" agli ambienti mafiosi della città etnea.
Il riferirmi che altro personaggio di nome Leonardo, responsabile di una discarica di rifiuti ubicata nei pressi Catania che, a quanto comprendevo, era probabilmente quella nei pressi del comune di Lentini, fosse obbligato a pagare il pizzo al suo socio, il noto Ercolano, per un attimo mi faceva sorridere, sorriso che spariva immediatamente pensando forse quali miserie o sofferenze nascondesse questa situazione.
Quel giorno Ilardo era particolarmente contento, aveva incontrato la cugina Maria Stella, la sorella di Piddu che, con trasporto, sincerità ed affetto, gli aveva confermato tutta la sua stima ed appoggio ed aveva anche voluto rappresentargli quello del fratello che, giorni prima, lo aveva incontrato in carcere.
Era un segnale significativo ed importante, non solo per la riconferma della fiducia che aveva nei suoi confronti il Piddu, ma perché aveva grande considerazione della cugina, come tutti nella Famiglia, la sua intelligenza, la serietà e l’acume nell’esaminare le situazioni, anche le più difficili, l’avevano resa immediatamente speciale, tanto da diventare, da giovane donna, il "consigliori" più ascoltato dal padre, Francesco "Ciccio" Madonia. Anche Provenzano nutriva per lei un particolare rapporto di stima e di affetto.
Così quel mattino ritenevamo giusto non parlare più di mafia e Ilardo mi portava a visitare il recinto e le stalle che aveva appena costruito per i cavalli nel suo casolare di campagna a Lentini, dove trovavamo il vecchio padre appoggiato alla staccionata che, con aria felice ed assente, inseguendo chissà quali ricordi, osservava alcuni cavalli già trottare.
Più tardi, lungo la strada che conduce a Siracusa, ci fermavamo in una baracca a mangiare il pane condito, con lui che parlava della sua famiglia diventata più ricca con l’arrivo dei due gemelli ed io a non pensare.


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Il colonnello dei carabinieri Michele Riccio
Il colonnello Michele Riccio inizia la sua carriera quando, dopo aver operato in Sardegna e sul confine Iugoslavo al comando della Tenenza CC. di Muggia (TS), nell’ottobre del 1975, viene trasferito al comando del Nucleo Investigativo CC. di Savona.
In seguito ad alcune fortunate operazioni di servizio che vedevano l’arresto di pericolosi latitanti affiliati alla ‘Ndrangheta, la liberazione di alcuni sequestrati e la risoluzione di alcuni efferati omicidi, veniva notato dall’allora Gen. Dalla Chiesa, comandante della brigata Carabinieri di Torino che gli affida numerose indagini molto delicate.
Questo rapporto continua anche dopo il suo incarico di Responsabile Nazionale del circuito carcerario; poi, alla conclusione della vicenda Moro, nel 1978, il generale Dalla Chiesa assume il comando del Nucleo Speciale Antiterrorismo e vuole il colonnello Riccio al comando della Sezione Anticrimine di Genova.
Il rapporto fra i due prosegue fino al giorno della tragica scomparsa del Generale e della moglie e non ebbe solo risvolti investigativi, ma anche personali e di affetto.
Alle sue dipendenze il colonnello Riccio gestisce i maggiori collaboratori, primo fra tutti, Peci, partecipando a numerose operazioni e missioni investigative anche al di fuori della Liguria. Nell’ambito di queste attività consegue anche la medaglia d’argento al valore militare.
Prosegue nel suo servizio dapprima sempre nei Reparti Speciali Anticrimine e poi al ROS, svolgendo operazioni nei confronti sia del Terrorismo Nazionale che Internazionale, vedi indagine Achille Lauro, cellula terroristica Hendawi, responsabile di numerosi attentati esplosivi, sia della Criminalità Organizzata di livello anche internazionale, contrastando, quindi, anche i traffici d’armi e di stupefacenti, non dimenticando sempre la liberazione di sequestrati, primo fra tutti la minore Patrizia Tacchella. E’ questa l’ occasione in cui Riccio conosce personalmente De Gennaro.
Tra le varie inchieste anche quelle sulla mafia siciliana, in particolare le connessioni relative all’appalto del Casinò di Sanremo negli anni ‘80 e quella contro gli affiliati della Famiglia di Bolognetta, i Fidanzati.
Dopo queste esperienze passa alla DIA dove riceve dal Dr. De Gennaro l’incarico di dare vita all’inchiesta che denomina «grande Oriente», dal nome in codice della fonte, «Oriente», aggiunge il termine «grande», con riferimento agli ambienti massonici che erano uno dei contesti principali dell’indagine e pericolosa continuità per il bene dell’Istituzione. Il resto è storia o cronaca.


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Si pente Ciro Vara
Caltanissetta. Dopo aver scontato una condanna definitiva a 9 anni per associazione mafiosa, a pochi mesi dalla scarcerazione, Ciro Vara, 53 anni, ex capomafia di Vallelunga e cugino del capomafia Giuseppe “Piddu” Madonia, ha deciso di collaborare con la giustizia.
Il boss avrebbe già raccontato ai magistrati episodi criminali che fanno riferimento alla gestione della cosca del boss Madonia; mentre sul controllo degli appalti avrebbe detto che imprenditori e politici “camminavano a braccetto”.       
Detenuto dal 30 aprile 1996 Ciro Vara nel 1993 si costituì alle forze dell’ordine mentre era ricercato nel corso della “Operazione Leopardo” che portò all’arresto di 203 persone. L’inchiesta aveva preso il via dalle dichiarazioni del collaborante Leonardo Messina, ex capomafia di San Cataldo, il quale, parlando del boss, che era un uomo importante tanto che durante una riunione nella quale si discuteva sul maxiprocesso di Palermo disse che tutto<<sarebbe finito in una fesseria alla Cassazione perché avevano la sicurezza che il processo sarebbe andato a finire nelle mani giuste <<che era il rappresentante della famiglia di Vallelunga>>.
Fecero riferimento a lui, come uomo d’onore e parente di Giuseppe Madonia, anche Francesco Marino Mannoia e Luigi Ilardo, altro cugino di Madonia, che disse: <<Il candidato designato a sostituire Madonia nella reggenza provinciale di Caltanissetta era il capomandamento di Vallelunga: Ciro Vara>>.
Per Madonia, Vara aveva controllato per anni la gestione degli appalti, ebbe rapporti stretti anche con Giuffré che conosceva da quando frequentavano l’Istituto Agrario a Caltanissetta. E, sempre con Giuffré si sarebbe preoccupato di rinsaldare alcune fratture che c’erano state all’interno di Cosa Nostra Nissena. <<Ciro Vara, gestito dalla Procura della Repubblica di Caltanissetta, sembra essere un collaboratore di giustizia di alta taratura>> ha dichiarato il presidente della Commissione Nazionale Antimafia, Roberto Centaro. M.L.


ANTIMAFIDuemila N°29