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L’indagine del dottor Chelazzi era arrivata ad una svolta



Le motivazioni delle sentenze delle stragi di Capaci, Via D’Amelio e per le bombe del 1993 non lasciano spazio al minimo dubbio. Parti dello Stato italiano, in ginocchio dopo il brutale, violento e ripetuto attacco frontale di Cosa Nostra, avvenuto a cavallo degli anni ‘92 e ‘93, hanno trattato con i mafiosi. Le modalità, le finalità, i confini e i compromessi con cui si sono sviluppati i colloqui tra le istituzioni e i rappresentanti dell’organizzazione criminale sono stati delineati nelle ricostruzioni fornite da più collaboratori di giustizia e dagli stessi uomini dello Stato coinvolti. Tuttavia, come sempre, i lati oscuri sono diversi e lasciano intravedere un quadro molto più inquietante di quanto appaia quello esplicito. E’ per questo motivo che le procure di Palermo e Caltanissetta hanno aperto un’inchiesta sulla trattativa tra Mafia e Stato.



Quattordicesima  parte

di Piero Grasso

E’ con viva emozione che oggi mi appresto a parlare della strage di via dei Georgofoli, ma non posso farlo senza rivolgere un referente pensiero a Gabriele Chelazzi.Circa due mesi fa mi telefonò e mi disse: “Per il decimo anniversario della strage di via Georgofili sarai tu a doverti occupare della parabola giudiziaria delle stragi”!Gli chiesi: “Perché parabola?” E mi rispose: “Perché la parabola è una narrazione di fatti dalla quale si trae un insegnamento, una verità.” Ed io di rimando: “Perché.. siamo a questo punto?” E lui: “Passi avanti ne sono stati fatti ed ancora se ne faranno!”Chi era Gabriele Chelazzi? Lo conobbi nell’Autunno nel ’93 quando, dopo le stragi, iniziarono presso la Direzione Nazionale Antimafia ove lavoravo come Sostituto le riunioni di coordinamento tra le Procure di Roma, Milano e Firenze, cui si aggiunsero Caltanissetta e Palermo.Si distinse subito per la pacatezza del suo argomentare e per la notevole preparazione giuridica che gli consentiva di affrontare con capacità le numerose questioni in fatto e in diritto che via via si profilavano.Emersa subito la causale mafiosa delle stragi, mi chiese subito aiuto per indicargli libri, sentenze e provvedimenti dai quali poter trarre nuove e più approfondite conoscenze sulla mafia. Non è facile dopo anni di indagine sul terrorismo passare a quelle sulla mafia. Ma Gabriele lo fece con tale diligenza, impegno e laboriosità da diventare, in breve tempo, un esperto conoscitore del fenomeno criminale, della struttura, delle regole, dei comportamenti, delle dinamiche dell’organizzazione mafiosa. Imparò le parentele, i collegamenti tra famiglie mafiose anche di province diverse, le alleanze e raggiunse subito un livello di conoscenza che non aveva nulla da invidiare a quello di colleghi con tanti anni di esperienza di indagini su Cosa Nostra. Seguì tutta la fase delle indagini e del processo agli esecutori materiali ed ai mandanti di mafia, nel corso del quale insieme al collega Nicolosi riuscì a far fronte, con notevole capacità e dedizione, a situazioni obiettivamente difficili e complesse. Non mancarono i risultati di tanto impegno ed il meritato successo. Dopo 189 udienze che si richiesero in circa 19 mesi (dal 12/11/96 al 6/6/98), dopo una requisitoria che occupò ben 12 udienze, tutti gli imputati vennero condannati a gravi pene e tali condanne furono tutte confermate nei successivi gradi di giudizio, anche in Cassazione, salvo una (una posizione secondaria annullata con rinvio). Durante il dibattimento, poiché si dovevano contemporaneamente portare avanti le indagini sui mandanti esterni delle stragi, fu proprio lui che nel Febbraio 1997 suggerì al Procuratore Nazionale Antimafia Pier Luigi Vigna la mia applicazione alle indagini sulle stragi, che durò senza soluzione di continuità fino al gennaio del 1999. Quando il 4 Agosto dello stesso anno lasciai la D.N.A. per ricoprire le funzioni di Procuratore della Repubblica di Palermo, a Gabriele, che frattanto dal 15/10/98 era stato trasferito proprio in DNA, fu assegnata, lo stesso giorno del mio insediamento, la funzione di coordinatore tra la Procura Nazionale e la Procura di Palermo, che avevo appena lasciato. Fu proprio lavorando a stretto contatto con lui, sia prima che nell’ultimo periodo, che potei ancor più apprezzare le sue doti di laboriosità, attenzione, diligenza, tenacia, il suo scrupolo investigativo che non lasciava niente di intentato o inesplorato, nella spasmodica ricerca anche del più difficile riscontro.
Al di là di ciò che si riuscì a realizzare insieme, mi rimane il grande privilegio di avere conosciuto da vicino un collega eccezionale, un magistrato di alta professionalità, un uomo onesto, capace, integerrimo, rigoroso e severo, innanzi tutto con se stesso prima che con gli altri, un amico che mi ha lasciato un patrimonio di valori ineguagliabile. La sua qualità più evidente? Una volontà di ferro, una grande capacità di lavoro.
Aveva una resistenza incredibile, una forza che gli veniva dallo spirito di sacrificio e dalla preparazione professionale, affinata in anni di studio ed esperienza.
Spesso, nel corso degli interrogatori, non esistevano per lui pause per quelle che definiva debolezze umane, come la fame, la sete ed altre esigenze.
Gabriele non era un superman.
Era un “grande uomo” dotato di grande sensibilità; con i suoi pregi e i suoi difetti, con le sue euforie con le sue depressioni.
Ricordo con quanta sofferenza subì poco prima della sua morte un ingiusto procedimento disciplinare, per un’incolpevole prescrizione di un reato di terrorismo. Si difese, mi chiamò a testimoniare e lo feci con tanto affetto.
Non è riuscito a conoscere l’esito che, indipendentemente dalla causa di estinzione per morte, si era concluso con una pronuncia di insussistenza dell’illecito disciplinare.
Gabriele ancora una volta aveva vinto.
Si, gli piace vincere e convincere, questo, si.
Era diffidente e spesso una certa timidezza lo faceva apparire aggressivo.
Diventava quasi irascibile se chi lo ascoltava dimostrava poca dimestichezza con l’argomento trattato. Non sopportava le persone superficiali, disinformate e approssimative.
Amava parlare con chi raccontava storie di mafia sullo sfondo dei problemi veri della Sicilia, regione di cui si era innamorato, coinvolgendo in queste sue passioni anche la famiglia.
Negli ultimi tempi si rammaricava nel rifiutare di partecipare al concorso per Procuratore Aggiunto a Firenze e mi diceva che non avrebbe avuto esitazioni se si fosse trattato di Palermo.
Pur di continuare le sue indagini, aveva rinunciato pure all’offerta di una candidatura per il recente rinnovo del C.S.M.
Egli amava la vita. Amava anche i piccoli piaceri di ogni giorno; sentire la buona musica, leggere i libri, andare a spasso, stare a tavola, parlare con gli amici.
Sì!  Discutevamo spesso; si “ragionava”, sulle indagini, tra l’altro, da tempo avviate, nei confronti dei mandanti esterni delle stragi e dopo l’acquisizione di ogni elemento significativo, si ritornava a verificare se fosse in sintonia o in contrasto con quelli già esistenti.
Un continuo “resettare” tutte le informazioni esistenti.
Sin dalle prime indagini era emerso, con chiarezza, che, nel corso dell’anno 1992, e forse anche dal 1991, “Cosa Nostra”, e più specificamente RIINA Salvatore, nella qualità di vertice indiscusso dei “corleonesi”, ambiva a ricostituire un rapporto con un nuovo referente esterno, all’indomani del fallimento del rapporto, fino ad allora intrattenuto, con il referente esterno tradizionale.
Ruolo centrale e definitivo dell’evoluzione negativa del rapporto con il referente esterno tradizionale ebbe l’esito negativo del maxiprocesso contro la mafia, la cui sentenza definitiva della Suprema Corte, del 30.01.02, pose fine alle speranze di impunità dell’intero popolo di “Cosa Nostra” ed, in particolare, della cupola mafiosa.
Questo avvenimento rappresentò il punto di arrivo di una linea di tendenza, il cui dato caratteristico era costituito dalle innovazioni legislative che nel corso dell’anno 1991, avevano inciso negativamente sugli interessi dell’organizzazione.
Linea di tendenza che oltretutto aveva finito per dimostrare che gli esponenti politici sui quali “Cosa Nostra” aveva ritenuto, storicamente, di poter contare, non solo non costituivano garanzia o salvaguardia per l’organizzazione, ma addirittura erano divenuti protagonisti, almeno ufficiali, di una azione politica complessiva volta a contrastare, con inedita efficacia, le organizzazioni criminali in generale e “Cosa Nostra” in particolare.
L’organizzazione quindi, e RIINA Salvatore per essa, si risolse ad impostare ex novo il proprio rapporto con il referente esterno, ed in primo luogo ad azzerare quello con il referente tradizionale, assimilato ormai alla figura del traditore.
Da qui la decisione assunta dai vertici di “Cosa Nostra”, secondo quanto accertato dalle indagini, di punire MARTELLI, all’epoca Ministro di Grazia e Giustizia, e ANDREOTTI: il primo, attentando direttamente alla vita dell’uomo politico; il secondo, provvedendo intanto ad eliminare fisicamente il più rappresentativo esponente della corrente andreottiana in Sicilia, l’europarlamentare LIMA (in effetti ucciso a Palermo il 12.03.1992). L’eliminazione di LIMA, al quale, tra l’altro, si faceva colpa di non aver ottenuto l’aggiustamento del maxi-processo, era anche finalizzata a pregiudicare le aspettative di ANDREOTTI, sia per le imminenti consultazioni elettorali, sia per la elezione alla carica di Presidente della Repubblica.
All’esito della stragi di Capaci e Via d’Amelio, il RIINA si riprometteva di ottenere che lo Stato intavolasse una trattativa, si aspettava che si “facessero sotto” per usare le parole a lui attribuite.
Questo l’obiettivo strategico di RIINA: indurre le Istituzioni a trattare direttamente  con “Cosa Nostra”. Su quali temi? Quello del carcere duro sotto il profilo inflittivo, che sotto quello di anticamera della collaborazione, la riforma della legge sui pentiti, la revisione del maxiprocesso, l’abolizione dell’ergastolo.
In sostanza un miglioramento delle condizioni generali in cui versavano gli uomini di Cosa Nostra.
BAGARELLA successivamente auspicherà di infiltrare direttamente in politica uomini d’onore  di Cosa Nostra, che non avrebbero potuto tradire come era avvenuto in passato lo “zio Totò” (n.d.r. RIINA Salvatore).
La situazione pertanto (siamo ormai all’ultimo scorcio del 1992) finì per regredire, per gli interessi di “Cosa Nostra”, alla sua fase iniziale, e, a ben vedere con un connotato negativo in più: alla sopravvenuta inagibilità del referente politico tradizionale – screditato per la sua inaffidabilità ed addirittura attaccato frontalmente – si era aggiunta la vanificazione dell’aspettativa di un cedimento da parte delle Istituzioni.
Ed in questa fase si collocano due episodi che avrebbero dovuto riprendere e riattivare la trattativa. Il proiettile di artiglieria lasciato nei giardini di Boboli, cui seguì una rivendicazione da una cabina pubblica, da nessuno riconosciuta come minaccia allo Stato per le sevizie nelle carceri speciali di Pianosa e Asinara, nonché il progetto di attentato nei miei confronti, dapprima rinviato e poi non attuato per una serie di circostanze fortuite.    
Sempre nell’Autunno del 1993 incominciava ad affacciarsi sulla scena politica un nuovo movimento politico che nelle speranze dei mafiosi avrebbe potuto contribuire a risolvere il loro problema.
Da talune acquisizioni probatorie si desumeva che il progettato attacco al patrimonio artistico dello Stato aveva una duplice finalità: la prima di orientare la situazione in atto in Sicilia verso una prospettiva indipendentista.
La seconda di attuare una vera e propria dimostrazione di forza, attraverso azioni criminose eclatanti, le quali, sconvolgendo l’Italia, avrebbero dato la possibilità ad un’entità esterna, rappresentata da un nuovo soggetto politico, di proporsi come la soluzione per poter che poteva riprendere in pugno l’intera situazione economico-politico-sociale.
Si “ragionava” con Gabriele Chelazzi che gli elementi acquisiti denotavano, con affidabile concretezza, l’esistenza, nelle fasi antecedenti i fatti di strage, di un programma di azione criminale volto a risolvere i problemi, e a soddisfare le esigenze, di due soggetti impersonali (“Cosa Nostra”, da un lato; e, dall’altro, un aggregato economico politico imprenditoriale).
Risultava necessario, quindi, passare in rassegna gli elementi che potessero attestare, sul conto del secondo dei due soggetti impersonali, la capacità di porsi – almeno potenzialmente – quale mediatore politico in grado di assicurare il soddisfacimento di quelle esigenze strategiche di “Cosa Nostra”, che i vari collaboratori hanno indicato essere state la causale sostanziale della campagna stragista. In altri termini: se la deliberazione della campagna stragista presuppone una prefigurazione degli obiettivi; era logico e doveroso controllare se il soggetto esterno, all’epoca considerata, potesse accreditarsi nei confronti di “Cosa Nostra” come soggetto disponibile – e almeno potenzialmente capace – ad assicurare all’organizzazione i risultati posti alla base della strategia stragista.
A questo punto non potevamo allo stato delle indagini ancora in corso in diverse Procure che porci problematicamente alcuni interrogativi.
1.    Vi sono elementi investigativi che consentano la dimostrazione che nell’intraprendere la campagna di strage, “Cosa Nostra” ha agito di concerto con soggetti (impersonalmente intesi; e non motivamente indicati) esterni ad essa?
2.    Vi sono elementi che consentono la dimostrazione dell’effettiva esistenza di rapporti tra il soggetto criminale “Cosa Nostra” e un soggetto esterno economico “politico-imprenditoriale”?
3.    Sussistono elementi che consentono la dimostrazione che tali rapporti, se effettivamente esistenti, sono stati compatibili – in termini temporali e in ragione della loro natura – con un accordo criminale preordinato alle stragi?
4.    Sono stati acquisiti elementi che consentono la dimostrazione che, avendo la campagna di strage una causale politicamente qualificata ed essendo proiettata sul futuro degli indirizzi delle politiche statuali in tema di contrasto delle organizzazioni criminali, il soggetto politico-imprenditoriale destinatario delle chiamate in reità ha fatto propria, in tutto o in parte, la causale stessa ed ha condiviso le aspettative di ordine politico per il perseguimento delle quali la campagna di strage è stata deliberata e realizzata?
5. Vi sono elementi che consentono la rappresentazione, anche indiretta, delle        coordinate di persona, di tempo e di spazio, dell’accordo criminale – sfociato nella esecuzione della campagna di strage – tra l’autore del reato (“Cosa Nostra”) ed eventuali concorrenti nel reato sotto il profilo psicologico?

Per raggiungere la prova occorre rispondere a ciascuno di questi interrogativi e cioè i concorrenti intrattengono rapporti; tali rapporti sono compatibili (per la loro natura e quanto ai loro parametri temporali) con l’accordo sul reato; vi è compatibilità della causale del reato rispetto ai concorrenti; in un determinato contesto di tempo e di spazio l’accordo è stato in effetti raggiunto?
Il dato di sintesi che se ne trae è che “cosa nostra” attraverso un programma di azioni criminali munite della capacità di incidere in profondità sull’ordine pubblico ha inteso imprimere un’accelerazione politica nazionale, sì da favorire trasformazione incisive della stessa e da agevolare l’avvento di nuove realtà politiche.
Ciò non pertanto da nessun concreto elemento e dalla correlativa attività di riscontro – si trae la positiva dimostrazione che questa prospettiva venne coltivata da “cosa nostra” sulla base di una intesa preliminare con un soggetto politico in via di formazione intenzionato a promuovere, e a sfruttare una situazione di grave perturbamento dell’ordine pubblico per agevolare le proprie prospettive di affermazione.
Diversa è comunque l’esistenza di contatti conducibili ad uno scambio successivo alle stragi comprendente da un lato l’appoggio elettorale e richiesta di interventi sulla normativa di contrasto alla criminalità organizzata.
Rimangono altre cose da comprendere: la stridente contraddizione tra la presa d’atto della mancanza di risultati della stragi eseguite fino a quel momento e la deliberazione-esecuzione della successiva strage dell’Olimpico, non avvenuta solo per un problema tecnico. 
E qui sorgono spontanee altre domande:
1.    Perché questa strage fu messa in esecuzione il 31.10.1994 ?
2.    In che termini, e per effetto di cosa, era cambiata la prospettiva per lo Stato maggiore delle stragi, che già dall’Autunno del 1993 aveva preso atto della mancanza di risultati dalle cinque stragi precedenti?
3.    Vi era forse una qualche relazione tra la decisione di commettere questa strage  l’evoluzione della “politica nazionale”, tenuto conto dell’imminente discesa in campo, peraltro ampiamente preannunciata, di un nuovo movimento politico?
4.    Si pervenne a una intesa tra “Cosa Nostra” ed altre entità eventualmente rappresentate dalla nascente forza politica in vista delle future elezioni politiche generali?
5.    In che relazione stava la decisione di commettere questa strage e l’opzione politica, in qualche modo concretamente praticata a partire dal Settembre-Ottobre 1993, di dar vita al partito di Cosa Nostra (Sicilia Libera).
6.    Per quale ragione al fallimento della strage non aveva fatto seguito il tentativo di replicarla?
7.    Vi era una relazione circolare tra la esecuzione (fallita) della strage del 31.10.94 e l’abbandono del progetto del partito “fai da te”?
8.    Era plausibile l’ipotesi che la strage dell’olimpico, così collocata nel tempo e nel contesto di iniziative molto avanzate sul piano dei referenti esterni, fosse stata fatta fallire? E da chi? Dai GRAVIANO, che avevano già preso le distanze dallo stragismo fine a se stesso di BAGARELLA e forse avevano stabilito un rapporto privilegiato con PROVENZANO, con l’ala moderata? BAGARELLA era rimasto all’insaputa di questo fallimento programmato? Ma chi, e come, poteva aver elaborato e attuato la decisione di simulare, agli occhi di BAGARELLA, la esecuzione della strage e il suo casuale fallimento?
9.    Era già iniziata la strategia di rendere la mafia invisibile al fine di ottenere con un metodo diverso quegli stessi risultati?
10.    Questa strategia, praticata sinora è ancora attuale o avrà di nuovo il sopravvento quella stragista di BAGARELLA e compagni?
11.    E la trattativa? E’ mai finita? O è ancora in corso?

Mentre ci dibattevamo tra questi inquietanti interroga
tivi è venuto meno GabrielChelazzi.
Questa volta non sono state bombe assassine a fermare il delicato lavoro di un investigatore raffinato e scrupoloso.
Gabriele Chelazzi ha lasciato a tutti noi un’eredità pesante, una responsabilità che avevamo delegato tutti per intero a lui; ha lasciato un vuoto incolmabile tra i Fiorentini e nel paese tutto, perché è venuto a mancare un magistrato eccezionale, un uomo giusto, che aveva fatto della ricerca della verità la sua fede. A me è venuto a mancare anche un amico, un fratello!


Pietro Grasso
Procuratore della Repubblica di Palermo


ANTIMAFIDuemila N°33