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di Anna Petrozzi



«Quando Bagarella fa il suo proclama in un pubblico dibattimento è p-e-r-i-c-o-l-o-s-i-s-s-i-m-o!» .
Chiede di aprire una parentesi nel suo dialogo, Giuffré, e cerca di spiegare il pericolo in cui incorrono «quelle persone che hanno delle responsabilità da un punto di vista processuale, prettamente giuridico, e in modo particolare quelle persone... che prima delle elezioni, tutti i deputati, tutti a disposizione, che una volta che loro saranno eletti... risolveranno tutti i problemi...». Insomma coloro che avrebbero dovuto garantire le promesse fatte in cambio del sostegno elettorale, sarebbero inadempienti e quindi a rischio. Perché, continua il collaboratore con voce pacata e tono perentorio «le persone in carcere possono fare proclami, ma le persone fuori possono fare il danno».
Sarebbe concreto quindi l’allarme già lanciato dal Procuratore Generale Salvatore Celesti qualche mese addietro di un possibile ritorno alle maniere forti da parte di Cosa Nostra carceraria, insoddisfatta della propria condizione che sembra essere stata dimenticata. Giuffré aiuta gli inquirenti a comprendere le logiche mafiose svelando i retroscena di chi, tutto sommato, sembrerebbe non essere più tanto interessato ai vecchi amici «non sono certo che da parte di tutta Cosa Nostra c’era un reale intento a risolvere, in modo particolare nell’ultimo periodo, il problema del 41 bis e altrettanto il discorso della revisione dei processi» perché - prosegue - «un capomandamento che è con il 41 bis in carcere, viene messo nelle condizioni di non nuocere alle persone che portano avanti la strategia, la politica di Cosa Nostra. Può anche darsi che questo sia un vantaggio, perché non ricevono influenze sulle loro decisioni». Come a dire se inaspriscono il carcere duro, sarà sempre più difficile per i detenuti far sentire la loro voce e interferire nei progetti della Cosa Nostra rinnovata.
Se Giuffré sta indicando la giusta strada interpretativa, di certo Bagarella ci deve essere arrivato vista la sua reazione che per altro non è che megafono di quella degli altri boss detenuti. Gli inquirenti sono certamente preoccupati, visto che sul «proclama» è stata avviata un’inchiesta tesa proprio ad accertare quali siano le reali capacità di minaccia dello stragista e di chi per lui.
Effettivamente se si vuol dare credito alla tesi del proseguo della trattativa, come indicato anche da alcune sentenze come la Borsellino bis, pubblicata nella pagina precedente, abbandonare i carcerati sarebbe vantaggioso per tutti. Per chi ha necessità di rassicurare l’opinione pubblica che non ha promesso nulla, e per Cosa Nostra che ha come obiettivo quello di sparire completamente alla vista per infiltrarsi nei ben più comodi scranni dell’impunità, dove, come dimostrano i processi, si rifugiano i colletti bianchi.
Comunque certe leggi, un po’ già approvate e un po’ ancora in potenza, non fanno comodo solo ai mafiosi come più comunemente intesi.
Il Procuratore Grasso non ha fatto mistero della valanga giudiziaria che sta per travolgere le indagini antimafia.
«Vi sono in atto progetti difficili da immaginare anche dalla più fervida fantasia, per quanto sono assurdi, che impediranno di fatto lo svolgimento delle indagini. Penso alla riforma delle intercettazioni telefoniche e ambientali, mezzi di cui ci vogliono privare. (Che prevede ad esempio che se un mafioso intercettato per 416 bis parlando con un’altra persona fa il nome di un politico dicendo «lo abbiamo nelle mani» oppure rivela che è concusso, il pm non può intervenire nei confronti del politico perché quelle intercettazioni erano limitate al mafioso e non possono essere utilizzare per altro. ndr.)
 [...] Poi ci impongono di comunicare alla persona oggetto delle indagini che lo stiamo facendo. Il che vuol dire che quando andremo ad effettuare una perquisizione nella sua abitazione o nel suo ufficio sicuramente, come è ovvio, non troveremo nulla di ciò che cerchiamo perché è già stato fatto sparire».
Ultimo neonato il cosiddetto «indultino», vale a dire l’annullamento degli ultimi tre anni di pena da scontare, che per un soffio, o è meglio dire, per le furiose polemiche sollevate da quei pochi ancora attenti, non è stato esteso anche ai mafiosi.
Relatore della prima proposta di legge, quella contestata, l’avvocato Nino Mormino, vicepresidente della Commissione Giustizia della Camera, legale di molti tra i più noti uomini d’onore tra cui Giuffré che, nel corso di vari interrogatori, ha pesantemente accusato il suo ex-difensore di collusione con Cosa Nostra.
Per questo Mormino è stato iscritto nel registro degli indagati con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa ed è stato sentito dai magistrati della Procura di Palermo che, come al solito, hanno dovuto svolgere il loro lavoro in un clima di attacchi furibondi. Prima da parte degli avvocati, scandalizzati non per la gravità dell’accusa, ovviamente, ma solo per la fuga di notizie che ha preceduto l’avviso di garanzia, poi da parte dei soliti noti che, hanno addirittura lanciato la notizia di dimissioni di massa da parte dei magistrati della DDA, guidati da Roberto Scarpinato e Guido Lo Forte, per protestare contro la gestione della procura da parte del capo Piero Grasso. Secca la smentita in un documento congiunto dei giudici che squalificano la notizia bollandola come falsa.
Ma torniamo ai fatti processuali.
Inesorabile Giuffré risponde, racconta e spiega che la candidatura di Mormino era stata voluta direttamente da Provenzano, e ancor di più, sarebbe stata la sua unica possibilità di evitare una morte certa. La «sentenza» - spiega il pentito - venne sospesa poiché si decise di affidare al legale il delicato compito di tutelare gli interessi dell’organizzazione in sede parlamentare. «Delusi e contrariati - ha detto Giuffré - per le mancate promesse fatte ai vertici di Cosa Nostra» avevano finalmente trovato un degno rappresentante.
Mormino, assistito dal figlio Sal, anch’egli avvocato, ha voluto rendere dichiarazioni spontanee, non appena saputo dell’indagine a suo carico, ma è stato poi riascoltato in via ufficiale dal Procuratore Grasso e da altri magistrati.
«Sono vittima di un complotto - ha detto -. Spero che i fatti vengano chiariti al più presto».
Lo speriamo anche noi.



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Truffati
e abbandonati


In un momento in cui le truffe ai danni anche dei piccoli imprenditori sono aumentate vertiginosamente, giunge la proposta di legge Ghedini che consiste nel depenalizzare la bancarotta fraudolenta. Ma per i risparmiatori scippati il rischio è di non rivedere mai più i loro soldi. Il disegno di legge 2342 del 14 febbraio 2002, di cui è relatore il forzista Nicolò Ghedini, l’avvocato del presidente del Consiglio, è tornato in discussione in questi giorni, dopo il via libera alla legge Cirami e in seguito all’incremento delle truffe ai danni dei piccoli imprenditori. La proposta di Ghedini è quella di abbassare la condanna dagli attuali 3/10 anni a 1/3 per la bancarotta fraudolenta. Se, infatti, il giudice concede le attenuanti, riducendo la pena di un terzo, si arriva a due anni, che sommati alla condizionale permettono ai truffatori di non fare un solo giorno carcere. La proposta di legge avanza delle modifiche anche per quanto riguarda la prescrizione del reato. Il codice penale prevede all’articolo 157, che un delitto per il quale la legge stabilisce la reclusione non inferiore ai tre anni - ed è il caso della proposta di legge Ghedini - la prescrizione scende a cinque anni. Se così fosse Carlo Mereta,  promotore finanziario di Genova, che nel 1997 fu protagonista di un crak da oltre 300 miliardi di lire e che non ha mai smesso al sua attività, non sarebbe più tenuto a restituire i soldi dei clienti, come se nulla fosse accaduto. Infatti, il signor Mereta, accusato di bancarotta fraudolenta e truffa, è ancora in attesa di essere rinviato a giudizio. Quindi se la proposta Ghedini fosse già stata approvata dal Parlamento, l’affare Mereta sarebbe risolto per decorrenza dei termini di prescrizione.


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