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Cosa Nostra tira le somme
di Gianni Barbacetto*

Le motivazioni delle sentenze delle stragi di Capaci, Via D’Amelio e per le bombe del 1993 non lasciano spazio al minimo dubbio. Parti dello Stato italiano, in ginocchio dopo il brutale, violento e ripetuto attacco frontale di Cosa Nostra, avvenuto a cavallo degli anni ‘92 e ‘93, hanno trattato con i mafiosi. Le modalità, le finalità, i confini e i compromessi con cui si sono sviluppati i colloqui tra le istituzioni e i rappresentanti dell’organizzazione criminale sono stati delineati nelle ricostruzioni fornite da più collaboratori di giustizia e dagli stessi uomini dello Stato coinvolti. Tuttavia, come sempre, i lati oscuri sono diversi e lasciano intravedere un quadro molto più inquietante di quanto appaia quello esplicito. E’ per questo motivo che le procure di Palermo e Caltanissetta hanno aperto un’inchiesta sulla trattativa tra Mafia e Stato.

Decima  parte


Le estati palermitane sono rischiose, come quelle ore in cui non è più notte e non è ancora giorno e gli incubi cattivi si impossessano degli insonni. Veleni, corvi, omicidi, stragi: sempre d’estate accadono, quando lo scirocco rallenta i movimenti e anche lo Stato si squaglia. L’estate 2002 si è aperta con i segnali forti inviati dai boss di Cosa nostra. 12 luglio: Leoluca Bagarella durante un processo legge una dichiarazione in cui sostiene che i capimafia sono «stanchi di essere strumentalizzati, umiliati, vessati e usati come merce di scambio dalle varie forze politiche». E protesta contro il regime carcerario duro, regolato dall’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario. Cinque giorni dopo, un gruppo di mafiosi detenuti affida al segretario dei Radicali italiani una lettera indirizzata agli «avvocati parlamentari»: «E dove sono gli avvocati delle regioni meridionali, che hanno difeso molti degli imputati di mafia e ora siedono negli scranni parlamentari, e sono nei posti apicali di molte commissioni preposte a fare queste leggi. Loro erano i primi, quando svolgevano la professione forense, a deprecare più degli altri l’applicazione del 41 bis. Allora svolgevano la professione solo per far cassa... Ora non si preoccupano...».Due messaggi. Due avvertimenti. I capi di Cosa nostra parlano poco, ma quando parlano, le loro parole sono pesanti come piombo. Sono pazienti, sanno aspettare. Ma giunge un momento in cui la pazienza ha fine, e devono parlare i fatti. La «petizione» di Bagarella è una svolta storica: non era mai successo che un boss facesse pubbliche dichiarazioni in aula, accennando alle «strumentalizzazioni» delle «forze politiche». Unico precedente, Salvatore Riina che nel maggio 1994 aveva tuonato in aula contro «i comunista»: «Ci sono i Caselli, i Violante, poi questo Arlacchi che scrive i libri... Ecco, secondo me il nuovo governo si deve guardare dagli attacchi dei comunista. E la legge sui pentiti deve essere abolita, perché sono pagati per inventare le cose...». Da allora, silenzio. Otto anni di paziente silenzio. Altri hanno parlato, in questi otto anni, dicendo alla tv e sui giornali cose non dissimili, solo un po’ meno sgrammaticate. Ma oggi, evidentemente, qualcosa si sta incrinando: e tornano le parole, i messaggi. «È Cosa nostra che fa sapere che così non è più possibile andare avanti. Ricorda ai politici che è tempo di mantenere i patti», interpreta l’avvocato palermitano Francesco Crescimanno. «Avete avuto un anno di tempo al governo, ora rispettare gli impegni presi prima delle elezioni», chiosa il senatore della Margherita Nando dalla Chiesa, membro della Commissione parlamentare antimafia. «Una parte di Cosa nostra, dalla galera, ha parlato anche ai boss liberi», spiega il magistrato Antonio Ingroia, «per ricordare loro che non si devono dimenticare di chi è dentro. Altrimenti potrebbero ricominciare a parlare le armi». Quello agli «avvocati meridionali», poi, suona come un avvertimento ancor più diretto e inquietante: siete entrati in Parlamento, dove si fanno le leggi; non pensate di potervi dimenticare di noi, che aspettiamo soluzioni per non essere sepolti in carcere da una valanga di ergastoli. E a Palermo si gioca a stilare elenchi, di quegli «avvocati parlamentari»: Nino Mormino, Forza Italia, vicepresidente della commissione Giustizia, difensore storico della famiglia Madonia; Enzo Trantino, Forza Italia, difensore di Marcello Dell’Utri; Antonio Battaglia, ex difensore di Bagarella, di Alleanza nazionale; Enzo Fragalà, di Alleanza nazionale... Mafia e politica: tornano, in quest’estate palermitana, i fantasmi dei rapporti tra boss e uomini dei partiti, i contorni incerti di accordi sotterranei, di patti sottoscritti, di promesse da mantenere. In un Paese che non ha eguali in Occidente. Non soltanto per il peso straordinario che vi hanno le organizzazioni criminali, ma anche perché qui da noi sullo sfondo resta – non detto, o mai esplicitato fino in fondo – il grande imbarazzo, la grande questione irrisolta: c’è un partito di governo che secondo alcune ipotesi investigative (per ora senza prove certe) è nato, in Sicilia, da un patto inconfessabile; c’è un uomo politico, Marcello Dell’Utri, padre di quel partito, sotto processo a Palermo per mafia; c’è un presidente del Consiglio, leader indiscusso di quel partito, a lungo indagato come possibile «mandante esterno» delle stragi mafiose del 1992-93. Solo la stampa estera, nel suo squisito candore, riesce a scrivere cose terribili senza l’imbarazzo nazionale: «Inquirenti di Palermo sospettano che Silvio Berlusconi abbia fondato il suo impero aziendale con il denaro della mafia», titola il 6 luglio l’austero quotidiano tedesco Süddeutsche Zeitung. Ombre incerte, incubi senza forma. Eppure sono questi i fantasmi che tornano ad animare l’ennesima inquieta estate palermitana.          INTERCETTAZIONI

Era iniziata bene, la stagione. Con un colpaccio messo a segno dagli investigatori antimafia. Agli inizi di giugno era stato arrestato Giuseppe Salvatore Riina detto Salvuccio, 25 anni, figlio di Totò Riina, il capo dei capi. Salvuccio aveva messo le mani su alcuni appalti miliardari a Palermo, Terrasini, Mazara del Vallo. Agiva attraverso un paio di imprenditori, che a loro volta avvicinavano i politici, perché è la politica che decide gli appalti. Uno di questi imprenditori, Mario Fecarotta, è intercettato mentre si rivolge con grande familiarità a un viceministro, Gianfranco Micciché, coordinatore di Forza Italia in Sicilia. A «Gianfrancuccio» chiede, l’11 giugno 2001, di intercedere per l’apertura di un conto bancario su cui avrebbero dovuto confluire i finanziamenti pubblici per un appalto nel porto di Palermo. «Me la fai questa cortesia, Gianfranco?». Micciché promette di interessarsi. Poi, quando Fecarotta viene arrestato e le intercettazioni diventano pubbliche, scoppia la polemica: non sul fatto che un viceministro della Repubblica sia in contatto con un socio di Riina, ma sull’utilizzo delle intercettazioni telefoniche. Enzo Fragalà, avvocato, ora parlamentare di Alleanza nazionale, rilascia dichiarazioni di fuoco: «Ci troviamo, con tutta evidenza, dinanzi a un altro uso distorto delle intercettazioni telefoniche. Occorre intervenire subito in Parlamento affinché vengano impedite simili azioni di abuso giudiziario per fini politici». In realtà, l’intercettato era Fecarotta e la voce di Micciché (parlamentare, dunque non intercettabile) era rimasta registrata sui nastri perché chiamato da Fecarotta. Ma subito si scatena una battaglia sulle intercettazioni telefoniche. Anche perché negli stessi giorni due magistrati milanesi, Fabio De Pasquale e Alfredo Robledo, che stanno indagando su presunte evasioni fiscali e irregolarità finanziarie nella compravendita di diritti cinematografici della Fininvest, chiedono alla Procura di Palermo i tabulati telefonici dell’azienda milanese, che i magistrati palermitani hanno acquisito fin dai primi anni Novanta. De Pasquale e Robledo affidano l’incarico di analizzarli a Gioacchino Genchi, il superperito già attivo in tante indagini di mafia, lo stesso che ha analizzato il traffico telefonico nelle inchieste sulle stragi di Capaci e via D’Amelio e i contatti telefonici tra Marcello Dell’Utri ed esponenti mafiosi. Con tempismo perfetto, un deputato di Forza Italia, Pierantonio Zanettin, presenta subito in Parlamento una proposta per impedire l’uso dei tabulati telefonici nelle indagini a carico dei parlamentari. Sarebbe la fine di tante indagini sui politici, in corso (Gaspare Giudice, Stefano Cusumano, Giuseppe Firrarello, Salvatore Castiglione) e future: ormai la soglia di prova necessaria per arrivare a una condanna processuale è diventata altissima, i «pentiti» non bastano, ci vogliono i «riscontri», ma ecco che i più classici dei riscontri, le intercettazioni e l’analisi dei tabulati telefonici, vengono azzerati. Perché non anche per noi, si saranno chiesti i boss...

ELEZIONI MAFIOSE

Domenica 14 luglio un altro politico di Forza Italia resta impigliato nella rete dell’antimafia. La mattina alle 10, la polizia di Palermo e Agrigento blocca in un casolare di Santa Margherita Belice quindici persone che avevano appena terminato di eleggere democraticamente il nuovo capomafia delle famiglie agrigentine di Canicattì, Favara, Burgio, Siculiana, Sambuca, Casteltermini, Cianciana. Tra i quindici, che stavano cominciando a festeggiare la nomina con dolci e champagne, un paio di ex politici democristiani e soprattutto un consigliere provinciale di Forza Italia, Giuseppe Nobile. Il 19 luglio si ricorda la strage in cui, dieci anni fa, ha perso la vita Paolo Borsellino. Commozione vera, qualche discorso vuoto, e una gaffe istituzionale: alla messa in suffragio, nella chiesa della Kalsa dove Paolo fu chierichetto, non è presente alcun ministro. Tutti troppo impegnati in altre faccende. Il governo, in verità, aveva delegato un sottosegretario all’Interno, il senatore Antonio D’Alì. Ma la famiglia aveva fatto sapere che era «persona non gradita». La famiglia D’Alì in passato ha avuto come campiere il vecchio boss Francesco Messina Denaro e come dipendente agricolo suo figlio, Matteo Messina Denaro, oggi latitante e considerato l’uomo forte della nuova Cosa nostra. Un terreno dei D’Alì a Castelvetrano era stato ceduto a un prestanome di Totò Riina e ora, confiscato, ospita una comunità di Libera: inaugurata lunedì 15 luglio, alla presenza di un altro sottosegretario all’Interno, Alfredo Mantovano. Il collega D’Alì, quel giorno, aveva preferito aspettare a Trapani, per non dover parlare di mafia e dei suoi ex dipendenti su un terreno mafioso che era stato di sua proprietà. Emerge, in questa estate italiana piena di colpi di scena, anche una strana riunione avvenuta nel marzo dello scorso anno, nello studio dell’avvocato (e parlamentare, ed ex sottosegretario all’Interno) Carlo Taormina: Dell’Utri si sarebbe incontrato con tre persone (Carmelo Canale, ex braccio destro di Borsellino, ma poi inquisito per mafia; Fabio Lombardo, nipote del maresciallo suicida a Palermo dopo le accuse di aver venduto informazioni ai boss; e il colonnello dei carabinieri Michele Riccio, che oggi ha svelato l’incontro). Ordine del giorno: cercare prove, anche false, da portare nel processo in corso a Palermo contro Dell’Utri.

PARLA LUCHINO

Poi, la scossa. Parla Bagarella. E «Luchino» Bagarella non è un boss qualunque: è l’uomo che, dopo l’arresto di Totò Riina nel gennaio 1993, prosegue la sua strategia della «guerra allo Stato» con le stragi a Firenze, Roma, Milano. Un duro dell’ala stragista. Un uomo che nutre un profondo disprezzo per i politici ma, a differenza di quel che si pensa, al momento giusto sa essere un leader militare con cervello politico. Racconta il collaboratore di giustizia Tullio Cannella che Bagarella diceva che perfino Riina era «troppo buono» con i politici, che non bisognava fidarsi troppo delle promesse di quegli ex democristiani o ex socialisti diventati il nuovo partito, Forza Italia. Quanto ad Andreotti, lo chiamava con disprezzo «il Gobbo» e ripeteva al capo dei capi che bisognava «tirargli il collo, a quello». Eppure, quando è il momento, Luchino sa mediare, sa attendere la soluzione politica. Lo racconta un capomafia messinese, Gaetano Costa, detenuto per qualche tempo con Bagarella a Pianosa negli anni Ottanta. Durante le festività natalizie del 1983, i detenuti di quel carcere organizzano una rivolta. Bagarella dice a Costa di lasciar perdere, perché «il Gobbo» si sta attivando. E «quindi siamo coperti». La rivolta è trasformata in un più tranquillo sciopero del vitto e, dopo un paio di mesi, una quindicina di siciliani viene effettivamente trasferita nel più comodo carcere di Novara. Oggi, con le sue parole, Bagarella pone fine a una confusa fase di «dialogo», di «trattativa» tra boss e Stato: alcuni uomini di Cosa nostra avevano accettato colloqui investigativi, avevano ventilato possibilità di dichiarare una generica «dissociazione» senza però offrire contropartite, avevano avanzato richieste d’incontrarsi in carcere per decidere una linea comune da seguire. Questa voglia di trattativa, culminata nella lettera agli uomini dello Stato firmata da Pietro Aglieri, il boss della «corrente» di Provenzano che si dà arie da teologo, non ha sortito effetti visibili. Anche perché è stata smascherata e bloccata da Alfonso Sabella, il magistrato palermitano che era a capo dell’ufficio centrale ispettivo dell’amministrazione penitenziaria (vedi Diario numero 16 del 26 aprile 2002). Ora scende in campo direttamente l’ala corleonese in carcere, con una «petizione» letta – forse non a caso – in un processo che si tiene nel trapanese, terra di Matteo Messina Denaro, il più ricco e potente dei boss di Cosa nostra in libertà. Basta con la melina, sembra dire ai politici, avete risolto tanti problemi vostri, avete fatto tante leggi che azzerano i reati dei colletti bianchi, il falso in bilancio, l’esportazione di capitali: ora pensate anche a noi. «Cosa nostra fa sapere che è tempo di onorare gli impegni presi», dice l’avvocaro Crescimanno. E voi, uomini di Cosa nostra in libertà, non dimenticate chi è in carcere, non pensate di potervi arricchire con la nuova pioggia d’appalti in arrivo, senza risolvere anche i problemi di chi è finito in cella.«Nel solo biennio 2000-2001 nel distretto di Corte d’appello di Palermo sono stati comminati ben 251 ergastoli a mafiosi», ricorda l’ex procuratore Gian Carlo Caselli. C’è dunque una Cosa nostra in carcere che rischia di essere sepolta a vita in una cella. Questa Cosa nostra pretende risposte: da Cosa nostra fuori, dai politici, dai suoi avvocati diventati politici. Vuole, subito, un 41 bis più morbido; in prospettiva, la revisione delle sentenze emesse prima dell’introduzione delle nuove regole del cosiddetto «giusto processo». Domande: ha avuto interlocutori che hanno fatto promesse o si è solo autoconvinta di averli? E se li ha avuti, chi sono? E se non arriveranno le risposte sperate, quale sarà la reazione?

I CONSULENTI

Il 41 bis, in realtà, è già annacquato rispetto all’impostazione iniziale, che isolava completamente il detenuto per impedirgli di comunicare con l’esterno. Lo dimostra il fatto che negli stessi giorni dai bracci speciali di diverse carceri italiane (Novara, Cuneo, L’Aquila, Viterbo...) escono lettere di protesta assai simili tra loro. «Con espressioni come nei posti apicali, che non verrebbe in mente neppure a me», dice Nando dalla Chiesa. «Chi le suggerisce? Chi sono i consulenti dei mafiosi in carcere? Chi elenca a Bagarella le sentenze della Corte costituzionale che poi egli cita nella sua dichiarazione?». Con questo 41 bis è già possibile far arrivare fuori ordini di estorsione e perfino di morte. In un colloquio senza vetro, nell’aprile 1998, il boss Vito Vitale diceva al figlio Leonardo, di dieci anni, di riferire al fratello maggiore Giovanni di procedere con un’estorsione da 700 milioni. E poi dava il benestare a un omicidio, nei confronti della «vacca palermitana»: «La scanniamo o non la scanniamo questa vacca?».Ma il proclama di Bagarella non sembra comunque aver ottenuto l’effetto sperato: «Non ci faremo intimidire», ha risposto Berlusconi. E la Commissione antimafia si è espressa per rendere il 41 bis non più provvisorio e temporaneo, ma stabile e definitivo. Dunque l’uscita di Bagarella è stata controproducente? «Ma il Parlamento non ha ancora preso sul 41 bis la decisione definitiva», fa notare l’avvocato Crescimanno. «Stiamo a vedere come andrà a finire». Chi avrà la responsabilità politica dell’applicazione concreta della norma generale? «Del resto, anche la strage di via D’Amelio è stata controproducente per Cosa nostra», ragiona l’avvocato Alfredo Galasso, «eppure è stata realizzata». Luigi Li Gotti, storico avvocato dei collaboratori di giustizia, è convinto invece che sia in atto una manovra diversiva: «Parlano del 41 bis per ottenere qualcos’altro. C’è qualcosa che a noi sfugge: la posta in gioco è un’altra, che noi non conosciamo. Forse gli affari, la spartizione della grandi opere». E ora che cosa succederà? C’è chi, come Antonio Ingroia, ipotizza che stiamo arrivando a una situazione simile a quella del 1992, quando Cosa nostra decise di fare piazza pulita dei politici che non avevano mantenuto le promesse – o che non avevano mantenuto gli impegni che i mafiosi si erano convinti fossero stati assunti: così furono ammazzati Salvo Lima e Ignazio Salvo, e la mattanza avrebbe dovuto continuare con l’uccisione di Calogero Mannino, Carlo Vizzini e Claudio Martelli. Oggi, dieci anni dopo, qualcuno a Palermo si chiede chi potrebbe essere il nuovo Lima. E ricomincia il gioco lugubre del Totomorto. Li Gotti, invece, non crede a una nuova stagione di sangue: «Oggi ci sono troppi affari sul piatto, troppi soldi in arrivo. Non siamo, come nel 1992, alla fine di una stagione, alla chiusura dei conti con una classe politica, ma anzi all’inizio di una nuova era di business. In fondo, molte risposte la mafia le ha avute, negli scorsi anni: il centrosinistra e il centrodestra hanno chiuso la stagione dei “pentiti”, varato il “giusto processo”, alzato le soglie di prova necessarie a condannare. E in Parlamento c’è anche una proposta di revisione dei processi con sentenza definitiva...». D’altra parte c’è chi, come Il Foglio di Giuliano Ferrara o Il Velino di Lino Jannuzzi, ipotizza invece che la «vendetta» di Cosa nostra potrebbe essere non di piombo, ma di carta: qualche «falso pentito» mandato a rianimare le accuse contro Berlusconi. C’è però chi, come Pietro Romeo, aggiunge la sua testimonianza alle tante sulla stagione delle stragi. Racconta, per esempio, un colloquio tra membri di Cosa nostra a cui ha assistito: «Quello di là sopra» diceva di continuare «a bummiare» (a mettere bombe). Ma chi lo diceva, Berlusconi? » E - assicura Romeo - Gaspare Spatuzza annuì.«Tra i politici della maggioranza ci sono linee diverse», sostiene dalla Chiesa. «C’è chi è sinceramente contro la mafia, c’è chi cerca una soluzione che non dispiaccia a Cosa nostra, c’è chi vuole rompere il patto scellerato. Magari mettendo una pietra tombale sui mafiosi dentro, per stringere nuovi accordi con quelli fuori». Ormai la mafia dei corleonesi, rumorosa, rozza e violenta, potrebbe essere sacrificata, sepolta in carcere ed esibita come trofeo per dire che Cosa nostra è sconfitta. I figli maschi di Riina sono tutti in cella, quelli di Provenzano studiano e si preparano per dare vita a una Cosa nostra «leggera», capace di stare a tavola e di inserirsi nei circuiti della politica. Ma se è così, è davvero probabile che la vecchia mafia, che ha ormai poco da perdere, non si lasci liquidare prima di aver usato tutte le sue armi: il patrimonio di conoscenza (tutto ciò che sa sulle stragi) e la potenza di fuoco (scegliendo un obiettivo diretto, un politico; o indiretto, un cadavere eccellente per scatenare la repressione a tutto danno degli affari di Provenzano e della nuova mafia).


IL MALE MINORE

Il ministro delle Infrastrutture, Pietro Lunardi, ha già detto che, in nome delle grandi opere, con la mafia «bisogna convivere». Più recentemente, il 10 luglio, Silvio Berlusconi ha dichiarato a Maurizio Costanzo che «è difficilissimo realizzare le grandi opere in Italia, ci sono i verdi, gli ambientalisti...». «E c’è la mafia», gli ha suggerito Costanzo. «Sì», ha concluso Berlusconi, «ma in misura minore».
*giornalista


ANTIMAFIADuemila N°27

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