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Trattativa. Lavori in corso
di Luca Tescaroli*

Le motivazioni delle sentenze delle stragi di Capaci, Via D’Amelio e per le bombe del 1993 non lasciano spazio al minimo dubbio. Parti dello Stato italiano, in ginocchio dopo il brutale, violento e ripetuto attacco frontale di Cosa Nostra, avvenuto a cavallo degli anni ‘92 e ‘93, hanno trattato con i mafiosi. Le modalità, le finalità, i confini e i compromessi con cui si sono sviluppati i colloqui tra le istituzioni e i rappresentanti dell’organizzazione criminale sono stati delineati nelle ricostruzioni fornite da più collaboratori di giustizia e dagli stessi uomini dello Stato coinvolti. Tuttavia, come sempre, i lati oscuri sono diversi e lasciano intravedere un quadro molto più inquietante di quanto appaia quello esplicito. E’ per questo motivo che le procure di Palermo e Caltanissetta hanno aperto un’inchiesta sulla trattativa tra Mafia e Stato.

Ottava  parte


A partire dal 1992 e negli anni successivi abbiamo assistito ad una straordinaria stagione giudiziaria che ha consentito di coltivare l'illusione che la giustizia nel nostro Paese non fosse una giustizia di classe. Sono state possibili inchieste sulla corruzione pubblica, sulla mafia e sui rapporti tra criminalità organizzata, politica e settori deviati delle Istituzioni, che hanno fatto emergere una forte compenetrazione tra la delinquenza e le classi dirigenti di questa Nazione. Sono stati inquisiti, giudicati e condannati i potenti che avevano goduto dall'unità d'Italia di una storica impunità, garantita attraverso amnistie, prescrizioni, trasferimenti di processi, rallentamenti ed ostacoli nelle investigazioni, intimidazioni ai magistrati, processi aggiustati, magistrati avvicinati, baratti e compravendita di giustizia.
Nel biennio 1992-93 si è assistito ad una singolare coincidenza temporale tra la violenza stragista mafiosa e le indagini di "Tangentopoli" che hanno creato le condizioni perché nuove forze politiche subentrassero ai partiti politici al potere (DC e PSI), che venivano azzerati, anche sfruttando la situazione di disorientamento, turbamento ed insicurezza diffusasi nella collettività.
Dopo un decennio, si sta facendo strada un singolare fenomeno, quello dell'assoluzione politica mediante rimozione. Un'esigenza di pacificazione sociale imposta dalla qualità e dal rango sociale degli imputati rientranti nella categoria della criminalità del potere, che abbraccia i fenomeni delinquenziali della corruzione pubblica e della collusione con la criminalità organizzata di tipo mafioso.
In questa prospettiva, ci si interroga sul perché quelle investigazioni non vennero effettuate prima del 1992 e viene da molti portato avanti un revisionismo sociale e culturale in modo da alimentare la convinzione che i magistrati impegnati abbiano agito per finalità politica nei confronti solo di alcuni esponenti politici, in violazione delle regole, con l'abuso nell'impiego della custodia cautelare in carcere, sì da intraprendere in modo apparentemente legittimo la via della riscrittura della storia giudiziaria e politica. Tale procedimento viene realizzato principalmente mediante “media”, il più delle volte, politicamente orientati.
Sotto altro profilo il riconoscimento positivo in sentenze di condanna della qualità delle indagini (soprattutto quelle relative ai fatti di criminalità mafiosa e di corruzione pubblica) e talune assoluzioni nei confronti di imputati eccellenti hanno contribuito a far diffondere la convinzione che il processo fosse ingiusto. Abbiamo assistito, nell'ultimo volgere di tempo, ad  una serie di interventi normativi (alcuni solo allo stadio embrionale) che suonano come una sorta di tentativo di  rivincita della politica contro l'amministrazione della giustizia. E il riferimento è all'introduzione di garanzie virtuali nel processo, che lo hanno trasformato in una sorta di percorso ad ostacoli,  e di strumenti di azzeramento dei risultati delle investigazioni in dibattimento (basti pensare alle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia che se non confermate in dibattimento restano prive di valenza accusatoria nei confronti dei terzi). Se poi dovesse essere convertito in legge il disegno Anedda che contiene novità normative in tema di giustizia e di ordinamento giudiziario, vi sarebbero conseguenze devastanti sulle indagini e sui processi. E' stato previsto che, in caso di condanna di un imputato che viene ritenuto innocente nei gradi successivi, i giudici rischieranno a loro volta anni di reclusione; si vorrebbero sottrarre i poteri di direzione e controllo delle indagini al pubblico ministero per affidarli alla polizia giudiziaria, istituzionalmente sottoposta al potere esecutivo e, quindi, certamente più sensibile all'ambiente politico della magistratura; si è previsto che tutti i processi passati in giudicato, nei quali viene riconosciuta una violazione dei principi del giusto processo (non vigenti all'epoca della loro celebrazione) potranno essere soggetti a revisione, con conseguente possibilità di offrire anche al mafioso stragista la possibilità di cancellare anni di accertamenti giudiziari; ed ancora, lo svuotamento della funzione e dei poteri del Consiglio Superiore della Magistratura, con il trasferimento ad altri organi, la separazione delle carriere tra magistrati inquirenti e giudicanti, la fissazione di priorità nell'esercizio dell'azione penale da parte della compagine governativa, la gerarchizzazione dell'ordine giudiziario presentano il rischio concreto di compromettere l'autonomia e l'indipendenza dei magistrati. Sorge il sospetto che il reale obiettivo sia quello di raffreddare la giurisdizione spingendo ed inducendo la magistratura a non infastidire chi ha potere e denaro e che non si voglia un ordine giudiziario garante indipendente di regole uguali per tutti. E ciò viene oltremodo avvalorato dal varo di alcune leggi e dalla presentazione di alcuni progetti di legge ritagliati su misura per interessi particolari. Il riferimento è alla nuova disciplina sul falso in bilancio, che ha depenalizzato alcune condotte, trasformandone altre da delitti in contravvenzioni (il che significa punire con le pene meno gravi dell'arresto e dell'ammenda soggette ad un termine di prescrizione triennale, del tutto irrisorio in considerazione dei tempi processuali e della complessità delle relative investigazioni) ed abbassato per i comportamenti più gravi la pena edittale di un anno, da cinque a quattro anni di reclusione. Tale ultima semplice modifica, in virtù di un meccanismo processuale, comporta la riduzione del termine massimo di prescrizione del reato da dieci a cinque anni; in altri termini, si è creata un'area di sostanziale impunità per molti imputati appartenenti al ceto imprenditoriale e l'azzeramento di innumerevoli processi in fase di celebrazione. Vi è, poi, il progetto di legge Cirami sul legittimo sospetto (che prevede l’allargamento delle maglie per ottenere lo spostamento del processo dinanzi ad altro giudice diverso da quello naturale)  e il disegno di legge presentato dall’onorevole avvocato Pittelli, che prevede alcuni sorprendenti ritocchi al codice di procedura penale idonei ad avvantaggiare soprattutto gli imputati di reati di mafia e di corruzione pubblica. Si pensi alla riforma dell’art. 192 c.p.p. che, se approvata dal Parlamento, impedirà che la parola di uno o più imputati confermi quella di altri, in mancanza di riscontri di diversa natura. E’ come dire: eliminare il perno probatorio delle tante condanne pronunciate nell’ultimo decennio. Ed ancora, si ponga mente alle proposte di abolizione dell'articolo 238 bis del codice di procedura penale, che impedirà al giudice di usare le sentenze definitive in processi diversi (il che significa che per condannare un mafioso sarà necessario dimostrare che la struttura mafiosa esiste); di abolizione della corsia preferenziale per applicare la custodia cautelare in carcere nei confronti degli appartenenti alla criminalità organizzata di tipo mafioso; di imporre, di regola, la notifica dell'avviso di garanzia subito dopo l'iscrizione dell'indagato nel registro delle notizie di reato; di far cadere il controllo selettivo del giudice sull'ammissione delle prove e di consentire il ricorso per Cassazione immediato contro un'ampia serie di ordinanze dibattimentali (in materia di questioni preliminari, di utilizzabilità degli atti, di richieste di prova) con l'effetto ogni volta della sospensione automatica del dibattimento fino a sei mesi; di utilizzare in dibattimento le dichiarazioni rese dal testimone e dal coimputato durante le indagini preliminari se chi le ha fatte non le può ripetere, per fatti imprevedibili al momento della loro acquisizione ( morte, scomparsa, malattia), solo nei confronti degli imputati il cui difensore abbia partecipato alla loro assunzione. In sostanza, mai. E tale previsione appare, di fatto, un incentivo a eliminare i collaboratori e i testimoni di giustizia, perché il loro assassinio equivale ad eliminare le voci d'accusa dal processo.
E ciò avviene dopo il proclama di Leoluca Bagarella in pubblica udienza, sui mafiosi stanchi di essere usati come merce di scambio, ed a seguito del documento indirizzato agli avvocati palermitani da parte di 31 boss mafiosi (nel quale si afferma che dalla protesta "pacifica e civile" dello sciopero della fame, se non sarà abolito il regime carcerario duro di cui all'art. 41 bis dell'ordinamento penitenziario applicato ai detenuti per reati di criminalità organizzata di tipo mafioso, si passerà a forme più drastiche"). Se è vero che l’aspettativa dell’eliminazione dell’articolo 41 bis non ha trovato positivo riscontro in sede parlamentare, tuttavia la regolamentazione contenuta nei progetti di legge anzidetti appare idonea ad offrire tangibili vantaggi alla criminalità organizzata di tipo mafioso.
Con questo non intendo dire che le recenti proposte rappresentino una sorta di tacitazione delle pretese dei mafiosi,  volte ad abolire o affievolire il regime di cui all'articolo 41 bis. Anzi voglio credere e ritengo di escludere un sinallagma o una corrispondenza di questo tipo. Resta, però, la singolare coincidenza temporale.
E' necessario, in ogni caso, che si inizi a riflettere seriamente su una anomalia che investe il nostro sistema: il ruolo dell'avvocato difensore che, al contempo, può difendere un indagato, essere membro del Parlamento (fenomeno che ha raggiunto proporzioni notevoli) e, financo, inserito nella compagine governativa. La concentrazione di ruoli e di poteri, per cominciare, offre e può offrire una difesa privilegiata a determinati imputati eccellenti  o politicamente contigui, a discapito di quelli meno abbienti o derelitti, posti ai margini della società, che certamente non dispongono di risorse finanziarie sufficienti o di una vita relazionale adeguata per poter beneficiare di un’assistenza legale privilegiata. La coesistenza di tali ruoli da parte di un avvocato può favorire, inoltre, l'esercizio del potere legislativo per finalità privatistiche: da un lato, quelle del professionista che potrà pretendere un onorario ben più lauto; dall’altro, quelle dell'imputato eccellente che per via difensiva può stimolare la presentazione di disegni di legge portatori di specifiche istanze scaturenti dal processo che lo riguarda. Si oltrepassano così i confini della difesa tecnica e il professionista può utilizzare strumentalmente le prerogative inerenti al ruolo di parlamentare o membro del governo per difendere l'assistito dal processo e non nel processo attraverso gli strumenti giuridici che lo stesso offre. In altri termini, se l'applicazione della legge non consente un’assoluzione la stessa può divenire il frutto di una mirata iniziativa legislativa che obblighi il magistrato ad assolvere, attraverso l'abolizione di una determinata figura di reato, anche mentre il processo è in corso, o attraverso una nuova regolamentazione più garantistica e restrittiva delle modalità di acquisizione delle prove. Sussiste un evidente conflitto di interessi. Ma non solo. La bilocazione o trilocazione del  difensore introduce una forte sperequazione rispetto al pubblico ministero, al quale è interdetta, giustamente, la possibilità di svolgere contestualmente le funzioni giudiziarie e di essere membro del Parlamento e/o della compagine governativa. Egli dovrà optare tra i due ruoli e, nel caso in cui al termine del mandato parlamentare decida di riprendere l'esercizio delle funzioni giudiziarie potrà farlo solo in altro distretto. In buona sostanza, sussiste il rischio che la carenza della regolamentazione sulle incompatibilità  del ministero del difensore, preposto a salvaguardare il fondamentale diritto di difesa, si traduca in un “vulnus” per l'uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge e, conseguentemente, in una caduta di democrazia.
*Sostituto Procuratore di Roma



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Cosa Nostra non aspetta più


Gli onorevoli Marcello Dell’Utri e Cesare Previti sarebbero nel mirino di Cosa Nostra. A rendere pubblica la notizia uno scoop di Repubblica a firma Giuseppe D’Avanzo che, in due intere pagine in testa al giornale di sabato 7 settembre, ricostruisce le minacciose intenzioni di Cosa Nostra secondo i rapporti incrociati del Sisde e dello Sco.
«Gli uomini d’onore lanceranno un attacco allo stato». «C’è un progetto di aggressione», inizierà con «azioni non percettibili all’opinione pubblica», poi sfocerà «in azioni eclatanti».
«Le fonti indicano - si legge nei due documenti - che, in vista dell’inefficacia delle proposte di ‘pacificazione’ i capi di Cosa Nostra in carcere potrebbero aver deciso di reagire con gli strumenti criminali tradizionali colpendo obiettivi ritenuti ‘paganti’. Secondo le stesse fonti, avrebbero però affermato l’intenzione ‘stavolta di non fare eroi’. Queste informazioni inducono a ritenere altamente probabile che a breve e a medio termine, Cosa Nostra torni a colpire selettivamente e simbolicamente, evitando ricadute negative di una eventuale eliminazione di personalità assimilabile a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino». «L’obiettivo potrebbe essere quindi una personalità della politica che, indipendentemente dal suo effettivo coinvolgimento in affari di mafia - proseguono gli agenti - venga comunque percepito come ‘mascariato’, cioè come compromesso con la mafia e quindi non difendibili a livelli di opinione pubblica. Questa linea di ragionamento induce a ritenere che l’onorevole Marcello Dell’Utri possa essere percepito da Cosa Nostra come un bersaglio ideale. Analogamente destabilizzante, in questa ottica, - si legge - potrebbe ritenersi un attentato ai danni dell’onorevole Previti, il cui profilo pubblico è molto simile a quello dell’onorevole Dell’Utri anche in relazione ai rapporti con il Presidente del Consiglio».
Dunque Cosa Nostra starebbe per riassaltare lo Stato, perché stufa delle presunte promesse disattese. Forse sarebbe più corretto dire l’ala stragista dei corleonesi, capeggiata da Bagarella che già ha fatto sentire la sua voce, stufa del regime del 41 bis, ma ancor più interessata alla revisione dei processi che sarebbe già nell’aria grazie alle proposte di legge Pepe-Saponara che la prevede nel caso in cui un imputato non ha potuto controinterrogare il testimone d’accusa, le cui dichiarazioni rese in istruttoria sono state ammesse. Questa, più la modifica dell’articolo 192 cpp che di fatto annulla la validità delle dichiarazioni incrociate dei collaboratori, significherebbe la fine dei processi di mafia e un colpo di spugna al lavoro degli ultimi venti anni.
«E allora perché la politica non si dà da fare - si indignano i mafiosi -? Che cosa fanno quegli avvocati che, ieri, erano nei collegi di difesa e oggi sono allo scranno parlamentare? I boss in carcere non comprendono i ritardi. Stramaledicono: <<Sono soltanto due fottute leggi. Se Iddu non pensasse solu a Iddu...>>. A.P.

ANTIMAFIADuemila N°25