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Falcone e Borsellino Mistero di Stato
di Lorenzo Baldo


E’ ancora il 19 luglio. Si commemora Paolo Borsellino per la decima volta. Tempo di bilanci. Certamente molti gli ergastoli inflitti all’ala militare di Cosa Nostra, processi efficaci conclusi certamente con la vittoria dello Stato. Tuttavia, come spesso accade in Italia, si condanna chi commette l’omicidio, ma mai chi lo ha commissionato o comunque concorre nella colpa. Ed è per questo che malgrado i successi delle Procure, le stragi di Capaci e via D’Amelio rientrano purtroppo nell’archivio polveroso e tetro dei misteri d’Italia, almeno fino a quando non si farà luce sui molti lati oscuri rimasti.
Enrico Bellavia e Salvo Palazzolo, entrambi giornalisti de la Repubblica, hanno dedicato la loro ultima pubblicazione Falcone e Borsellino Mistero di Stato (Edizioni della Battaglia  10) proprio all’analisi di tutti quei problemi aperti che le indagini non hanno risolto. E ce li spiegano nell’intervista a seguire.


Per quali ragioni le stragi di Capaci e Via D'Amelio rientrano nei "Misteri di Stato"?

Perché è evidente, da molte tracce che emergono nelle ponderose istruttorie che hanno prodotto i processi e nelle stesse sentenze dei giudici di Caltanissetta che Cosa nostra non realizzò tutto da sola, ma che valutò d’intesa con altre entità, politici, servizi e apparati dello Stato deviati, ugualmente interessati a sbarazzarsi dei due magistrati, l’opportunità di scatenare un’offensiva terroristica senza precedenti. Le tracce di questi interessi altri si materializzano anche con veri e propri depistaggi, manipolazioni di prove, come nel caso dei computer di Falcone o di cancellazione di prove, come per le agende di Borsellino.

Cosa significa che vi è ancora "l'ombra di Gladio sui delitti eccellenti"?
Giovanni Falcone lavorava all’elenco dei gladiatori poco prima di essere assassinato. Era incuriosito dalle presenze siciliane nell’organizzazione clandestina che avrebbe dovuto proteggere il Paese da un improbabile golpe comunista. Parecchi elementi indicano che questa organizzazione paramilitare, in Sicilia, sia entrata in relazione con l’organizzazione mafiosa. Evoca un ponte con apparati statunitensi egualmente interessati al mantenimento dell’Italia e della Sicilia in particolare nell’orbita atlantica. Offre una chiave per cucire in un movente unico il fastidio che i mafiosi nutrivano per Pio La Torre con la sua battaglia contro i missili a Comiso.
Fantapolitica?  Non dimentichiamo che proprio questa saldatura di interessi tra mafia e altri settori, in funzione ancora una volta anticomunista, era stata sperimentata in occasione del fallito golpe Borghese. Cosa nostra si era tirata indietro e Luciano Leggio rivendicava il proprio contributo al salvataggio della democrazia nel nostro Paese.
Dove sarebbe potuto arrivare Paolo Borsellino con le sue indagini orientate verso quello che ormai viene definito il "nodo degli appalti"?
Sarebbe potuto arrivare con largo anticipo e con grande vantaggio a capire quanto e in che modo l’economia legale fosse permeata degli interessi e dei capitali frutto della stagione più redditizia per Cosa nostra, quella degli affari sporchi degli anni Settanta e Ottanta. Grandi imprese, dalla Calcestruzzi legata al gruppo Ferruzzi alla galassia Fininvest, erano sotto la lente di osservazione tanto di Falcone quanto di Borsellino. Non a caso proprio Borsellino chiede un incontro riservato con il colonnello dei carabinieri Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno, per rispolverare quel dossier mafia e appalti che il capo della procura, il dottore Pietro Giammanco, aveva liquidato come non utile ai fini di un’indagine.

Purtroppo non sono stati raccolti ancora elementi sufficienti per poter stabilire le motivazioni che hanno spinto Cosa Nostra ad effettuare la strage di Via D’Amelio così poco tempo dopo quella di Capaci…
No, ma si sono raggiunte sufficienti certezze sul fatto che ad avere fretta non fosse solo Cosa nostra. Il progetto di morte, già deliberato da mesi insieme con la strage di Capaci, subisce una improvvisa accelerazione, viaggia in parallelo con la fretta ostentata e confidata da Borsellino di giungere presto a una verità sulla fine di Falcone. I mafiosi sapevano che il magistrato correva e d’altro canto qualcuno disse loro che c’era la necessità di “dare un’altra scossa al sistema”.

Nel corso delle indagini sulla morte di Borsellino sono emersi indizi inquietanti circa i contatti telefonici tra Gaetano Scotto e il Cerisdi, che cosa può significare?
Ci sono telefonate sospette antecedenti la strage alle utenze del Cerisdi, ci sono curiose coincidenze come quella che vede protagonista Scotto. È un terreno difficile e non sufficientemente esplorato. Ci sono tracce dell’esistenza di sigle di copertura collegate ai servizi segreti in quella struttura del castello Utveggio. Quella è la sede di una scuola di eccellenza per manager della pubblica amministrazione. Tra ponti radio e apparati telefonici sofisticati è emerso al processo che vi fosse anche una società di copertura dei servizi smantellata dopo la strage di  via d’Amelio.

Il mistero nel mistero è certamente la trattativa. Quali gli elementi più importanti rimasti da scoprire?
C’è da capire con chi parlasse Vito Ciancimino. Lui era il referente dei corleonesi, almeno questa è la ragione per cui i carabinieri del Ros, il generale Mario Mori e il capitano De Donno tentano un contatto con lui. Di Riina o di Provenzano? Chi può dirlo. Ciancimino dice di parlare dentro l’organizzazione con il medico di Riina, Antonino Cinà. I carabinieri chiedono la consegna di latitanti come Riina e Provenzano. Il canale si interrompe poi riprende. Ciancimino si propone come infiltrato nel settore degli appalti. Poi viene catturato Riina e Provenzano può prendere le distanze dalle stragi e riorganizzare una Cosa nostra sul modello del passato, fondato sulla pacifica convivenza e convenienza reciproca tra Stato e Mafia. Catturato Riina si riprende con le bombe ma questa volta al Nord. E qui è ancora la frangia corleonese più vicina a Riina a spadroneggiare. Giovanni Brusca parla di un suggeritore nella scelta di piazzare le bombe al patrimonio artistico. Questo suggeritore sarebbe un certo Bellini. Uomo vicino ad ambienti dei servizi cosiddetti deviati, trafficante dalle mille risorse, interessato ai furti d’arte e in contatto con Antonino Gioè, uno degli stragisti di Capaci morto suicida in carcere. Anche Gioè, dentro Cosa nostra, vantava rapporti con esponenti dei servizi. E Gioè è di Altofonte. Che è il paese di Francesco Di Carlo, ovvero il collaboratore che racconta di visite in carcere, ricevute nel periodo della sua detenzione in Inghilterra da parte di esponenti di servizi interessati a uccidere Falcone. Di Carlo dice di avere dirottato questi personaggi su Gioé.

Quali sono i legami tra il suicidio di Raul Gardini (o presunto tale) e quella dichiarazione di Falcone che indicava l’ingresso della mafia in borsa?
Sul suicidio giudiziariamente non ci sono dubbi. Come è provato che il gruppo di cui Gardini era il manager aveva in Sicilia una partnership con la Calcestruzzi dei fratelli Buscemi. Uno uomo d’onore di Passo di Rigano, l’altro uomo d’affari con molte entrature nei palazzi che contano. Non dimentichiamo che secondo i collaboratori sono proprio i Buscemi a dettare ai boss la quaterna da votare alle elezioni politiche dell’87 quando Riina decide di votare per il Psi per dare un segnale alla Dc. Chi traduce l’indicazione in una scelta elettorale precisa, fornendo i nomi dei candidati sono proprio i Buscemi. Questo il bagaglio dei due fratelli. Con questo bagaglio sono loro a consentire lo sbarco della Calcestruzzi di Ravenna in Sicilia, consentendo un piano di espansione nel settore che faceva allora di quella impresa la più grossa sul mercato, capace di agire in condizioni di quasi monopolio. Forniva la materia prima per le costruzioni.

Gli avvenimenti recenti, come la lettera di Aglieri, l’arresto del figlio di Riina e i 13 ergastoli annullati in Cassazione nella sentenza definita di Capaci per coloro che guarda caso fanno parte dello schieramento di Provenzano, possono rientrare nell’ambito della “trattativa”?
È difficile immaginare che Riina non avesse previsto i rischi di una stagione di terrore. La risposta dello Stato lo ha visto in manette. È rimasto Provenzano che ha le stesse esigenze che aveva Riina: garantire un carcere più leggero a chi è dentro e una sostanziale impunità a chi non ha ancora conosciuto la galera ma è al crocevia tra gli interessi mafiosi e le grandi opere pubbliche. Aglieri è a suo modo coerente con un progetto che tende non tanto a far ammettere allo Stato l’esistenza di Cosa nostra ma a far passare l’idea che le stragi non siano state il frutto di una scelta di tutta l’organizzazione. Che ci sia una parte affidabile dell’organizzazione e che, per converso, tentando di mandare all’ergastolo tutti i capi senza distinzioni lo Stato abbia compiuto un errore. Gli effetti che questo avrebbe dentro Cosa nostra sarebbero facilmente prevedibili: ci sarebbero ampi spazi per le revisioni dei processi. Il sacrificio del fronte dei cosiddetti dissociati per i quali resterebbe il carcere in cambio di una narcosi dell’azione penale e delle misure patrimoniali nei loro confronti riverberebbe sugli altri, sul popolo delle gabbie vantaggi processuali enormi.

Durante una deposizione Giovan Battista Ferrante riferisce di una frase che il Riina avrebbe scambiato con Matteo Messina Denaro a proposito della strage di Capaci "I Massoni vollero questo...". Come si inserisce la massoneria in questo quadro?
Nella cultura e nella accezione di Cosa nostra, l’idea di un potere egualmente potente ed effettivo spesso è legato alla forza attribuita al vincolo massonico. Di Stefano Bontate i corleonesi invidiavano in definitiva proprio la capacità di relazione mutuata dalle frequentazioni di loggia. All’interno di strutture segrete come quelle di certa massoneria si ritrovano mafiosi, massoni ed esponenti dell’eversione nera. È possibile, ma è solo un’astrazione concettuale, che con quella espressione i boss evocassero un mondo di relazioni, una catena di contatto, un universo di collegamenti, questo sì, tutto da esplorare e per intero.

Gioacchino Pennino, in una recente udienza del processo Dell'Utri, ha ritrattato le sue precedenti dichiarazioni affermando che il senatore era uomo troppo "parrinaro" (troppo devoto alla Chiesa) per poter essere avvicinato da Cosa Nostra. Si tratta solo di "cambio di clima"?
È un cambio di clima comprensibile. Immaginate le resistenze di Buscetta a parlare di Andreotti con Falcone. Il clima in criminali che hanno scelto per calcolo di impunità la via della collaborazione con la giustizia si traduce in aspettative di sicurezza rispetto a una organizzazione che loro sanno potente e in grado di colpirli. Pennino associa alla sua caratura criminale una ottima conoscenza dei meccanismi della politica. D’altro canto non ci sono ragionevoli previsioni di tranquillità per quei collaboratori che scelgono di vuotare il sacco definitivamente proprio sul versante dei rapporti con la politica. Non è certo il tempo perché qualcuno scelga consapevolmente di cacciarsi nei guai rischiando di vedere compromessi i privilegi, piccoli o grandi, fin qui ottenuti.

Le indagini sui mandanti esterni delle stragi che vedevano come indiziati principali Berlusconi e Dell’Utri, benché nell’ordinanza il GIP confermi una certa “facilità di contatto” tra gli onorevoli e Cosa Nostra, hanno chiuso un capitolo.  Si arriverà mai alla verità su questo mistero di Stato?
Non è con una previsione ottimistica o con generiche prognosi sulla sconfitta di Cosa nostra, o con fantasiose, quanto autorevoli elaborazioni revisioniste sul peso e l’incidenza sull’economia dell’organizzazione che si insegue la verità. L’augurio è naturalmente che si arrivi in fondo. Ma non pare che ci siano le condizioni.

ANTIMAFIADuemila N°24 luglio-agosto 2002

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