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Indice articoli

di Giorgio Bongiovanni
Le motivazioni delle sentenze delle stragi di Capaci, Via D’Amelio e per le bombe del 1993 non lasciano spazio al minimo dubbio. Parti dello Stato italiano, in ginocchio dopo il brutale, violento e ripetuto attacco frontale di Cosa Nostra, avvenuto a cavallo degli anni ‘92 e ‘93, hanno trattato con i mafiosi. Le modalità, le finalità, i confini e i compromessi con cui si sono sviluppati i colloqui tra le istituzioni e i rappresentanti dell’organizzazione criminale sono stati delineati nelle ricostruzioni fornite da più collaboratori di giustizia e dagli stessi uomini dello Stato coinvolti. Tuttavia, come sempre, i lati oscuri sono diversi e lasciano intravedere un quadro molto più inquietante di quanto appaia quello esplicito. E’ per questo motivo che le procure di Palermo e Caltanissetta hanno aperto un’inchiesta sulla trattativa tra Mafia e Stato.


Quarta  parte

Proseguiamo la nostra investigazione giornalistica per contribuire all’accertamento di quelle causali che determinarono la cosiddetta «strategia stragista» e soprattutto per cercare di trovare una risposta a tutti quei quesiti che ci siamo posti nei numeri precedenti.
Il nostro sistema penale, checché se ne dica, è davvero molto rigoroso e garantista, così come il lavoro dei magistrati che si fa particolarmente cauto quando deve addentrarsi in grovigli così fitti come quello dei «sistemi criminali».
Infatti, nonostante una notevole mole di indizi davvero inquietanti, i Pm della Procura di Palermo hanno chiesto l’archiviazione delle loro indagini sul quel sistema di collusione che coinvolge Cosa Nostra e i cosiddetti poteri forti deviati poiché, a loro avviso, «si ritiene che non sia sufficientemente provata la sussistenza di un nesso causale fra le deliberazioni in seno a Cosa Nostra del piano eversivo-criminale ed il progetto di organizzazione delle leghe meridionali del gruppo facente capo a Gelli-Delle Chiaie».
Siamo di nuovo nel campo della insufficienza di prove, ma gli elementi raccolti dagli inquirenti sono di estremo interesse e noi, che non abbiamo alcun vincolo, riteniamo di dover rendere comunque note le risultanze a cui sono pervenuti i procuratori. Presenteremo dapprima un quadro generale per poi approfondire ogni singolo aspetto nelle puntate prossime.

I sistemi criminali

Anni ‘92-’93. L’Italia si trova in una fase di grossa crisi, sia da un punto di vista strettamente politico, sia perché si vede attaccata ferocemente dalle bombe di Cosa Nostra.
Una volta accertata la responsabilità della criminalità organizzata siciliana, però, le indagini hanno portato a concludere che la mafia andava ormai considerata «come l’asse portante di un autentico ‘sistema criminale’ in cui venivano a convergere le altre più pericolose consorterie di stampo mafioso e non». Questo sistema appariva «in grado di agire in tutte le direzioni e all’interno di tutti gli ambienti, poteva anche essersi espresso sul piano strategico», oltre che su quello tattico.
A partire dalla tempistica e dagli obiettivi scelti, certamente atipici per le consuete modalità terroristiche di Cosa Nostra, si è potuta ipotizzare una concomitanza di interessi anche con entità criminali diverse capaci «di elaborare i sofisticati progetti necessari al conseguimento di finalità di più ampia portata». 
Ad esempio si è evidenziato come in quel periodo vi fosse un certo fermento politico di tipo separatista, con il formarsi delle varie leghe in tutto il Paese, manifestato in particolare dal massone Licio Gelli, il quale era «in costante contatto con elementi di raccordo tra imprenditoria commerciale e cosche mafiose riconducibili a Cosa Nostra, unitamente ad esponenti della destra eversiva (Stefano Delle Chiaie)».
«Progetti che sembravano poter coniugare perfettamente le molteplici aspirazioni provenienti da quel composito mondo nel quale gruppi criminali con finalità politico-eversive si affiancano a lobbies affaristiche e mafiose».
In parole più semplici l’omicidio Lima sarebbe stato il primo punto dell’attuazione di un piano di «eversione dell’ordine costituito» messo in atto da un ‘associazione risalente agli anni 1990-1991 nella quale erano confluite diverse entità criminali: Cosa Nostra con lo schieramento corleonese, uomini della massoneria «deviata» e dell’eversione nera a loro volta legati a Cosa Nostra e altre consorterie mafiose come la ‘Ndrangheta.
A riprova di tale teoria è emerso che nel decennio ‘80-’90 si è venuto a consolidare una sorta di «processo di integrazione» tra le mafie nazionali al fine di curare gli interessi reciproci per cui sono state elaborate perfino strategie comuni.
«Si è altresì delineata l’ipotesi che tali strategie siano state ispirate da un certo entourage di dette organizzazioni mafiose, garante dell’efficienza delle ‘relazioni esterne’ di queste ultime con il mondo della politica, dell’economia, delle professioni e delle istituzioni. Un entourage  capace di orientare le scelte strategiche ad ampio respiro delle organizzazioni mafiose, ma anche «tessuto connettivo» fra le varie mafie nazionali, delle quali ha agevolato il processo di integrazione e compenetrazione che ha dato luogo in una certa fase storica ad uno dei più ambiziosi progetti criminali della storia repubblicana.» «Si è, insomma, delineata la fisionomia di un progetto di riorganizzazione del sistema dei poteri criminali nazionali, finalizzato ad impossessarsi dello Stato».
L’obiettivo di questo «sistema criminale», quindi, sarebbe stato quello di azzerare e rimuovere le reti politico-collusive che fino a quel momento avevano fatto da garante per poi sostituirle con altre più idonee e affidabili.
Al fine di raggiungere il proprio scopo si è cercato di destabilizzare l’assetto politico del paese per poi «trasformare lo Stato unitario in una nuova ‘forma Stato’ che contemplava la rottura dell’unità nazionale, la divisione dell’Italia in più stati o macroregioni e, comunque, la secessione della Sicilia».
Più specificatamente si puntava a creare uno Stato autonomo del Sud che avrebbe trasformato questa parte del Paese in una sorta di zona franca dove i soggetti che esprimevano gli interessi del sistema criminale avrebbero potuto gestire, anzi, monopolizzare l’economia lecita e illecita.
Parafrasando le parole di un collaboratore «sono gli anni in cui Cosa Nostra e i suoi referenti progettano di ‘farsi Stato’», tutelando i propri interessi direttamente tramite proprie creature politiche.

Le prove

Ancora una volta la ricostruzione di questo agghiacciante quadro è stata resa possibile e plausibile dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia che convergono anche al di là del proprio clan. Infatti combaciano i racconti dei pentiti di Cosa Nostra, ‘Ndrangheta e Sacra Corona Unita, oltre a quelli di personaggi ugualmente loschi, ma formalmente non appartenenti ad alcun sodalizio criminale.
 «La piattaforma indiziaria in ordine alla costituzione dell’associazione e all’elaborazione del piano eversivo è piuttosto consistente e si fonda su numerosi elementi convergenti che scaturiscono dalle dichiarazioni dei collaboratori e dai relativi riscontri, ma anche da elementi di prova di altra specie.»

Leonardo Messina


Il primo ad esporre in modo organico il progetto politico-eversivo è stato Leonardo Messina che ne parlò sin dal primo interrogatorio in cui manifestò la sua intenzione a collaborare con la giustizia, il 30.06.92, al Procuratore Aggiunto di Palermo, Paolo Borsellino.
Quindi anticipò alcuni «eventi politici» che non si erano ancora verificati.
Più precisamente il 4 dicembre 1992, presso la sede della Commissione Parlamentare Antimafia, il Messina ha riferito di una riunione avvenuta nella campagna ennese verso la fine del 1991 alla quale parteciparono i vertici di Cosa Nostra.
«Avevano fatto la nuova strategia e avevano deciso i nuovi agganci politici, perché si stanno spogliando anche di quelli vecchi. ... Cosa Nostra sta rinnovando il sogno di diventare indipendente, di diventare padrona di un’ala dell’Italia, uno Stato loro, nostro.
... L’obiettivo è di rendere indipendente la Sicilia dal resto d’Italia?
Sì. In tutto questo Cosa Nostra non è sola, ma è aiutata dalla massoneria.
Ci sono forze nuove alle quali si stanno rivolgendo?
Sì, ci sono forze nuove, si stanno rivolgendo. ... Sono formazioni nuove. ... Non solo tradizionali. ... Non vengono dalla Sicilia.
... Lei ha fatto più volte riferimento alla massoneria. Vuole spiegare questo rapporto?
Molti degli uomini d’onore, cioè quelli che riescono a diventare dei capi, appartengono alla massoneria. Questo non deve sfuggire alla Commissione, perché è nella massoneria che si possono avere i contatti totali con imprenditori, con le istituzioni, con gli uomini che amministrano il potere diverso di quello punitivo che ha Cosa Nostra.
Ed è nella massoneria che sta sorgendo questa idea del separatismo?
Sì. Desidero precisare che tutto quello che dico non è fonte di deduzioni o interpretazioni personali, ma è quello che so. Le so per conoscenza diretta.
.. Questo separatismo sarebbe in collegamento con le forze - lei dice - non nazionali o anche con forze nazionali?
Anche con forze nazionali.
Le forze nazionali sono politiche o no?
Anche politiche.
Politiche e non, quindi?
Politiche ed imprenditrici.
Non istituzionali?
Anche.
Quindi ci sono settori, per così dire, delle istituzioni, dell’imprenditoria e della politica che sosterrebbero questo progetto?
Sì.
RIINA è il capo di questa strategia tendente a separare la Sicilia dal resto d’Italia?
Sì. E’ uno dei capi.
... In pratica devono appoggiare nuovi partiti che tentano...
Che tentano di separare la Sicilia dal resto d’Italia?
Sì.
Lei ha detto prima che questi gruppi non vogliono più dipendere dallo Stato Nazionale.
In un certo senso. Finora hanno controllato lo Stato. Adesso vogliono diventare Stato.
Solo la Sicilia interessa questo movimento separatista?.
No. Io parlo di Cosa Nostra, che è la stessa in Calabria come in Sicilia.
... Ora che il tentativo di un nuovo compromesso, oppure si è deciso di non avere più compromessi?
Ci sarà un nuovo compromesso con chi rappresenterà il nuovo Stato, se ce la faranno.
Però, se c’è un progetto separatista, si tratta di una cosa distinta: un compromesso vuol dire che si resta comunque all’interno dello Stato unitario, oppure no?
Sì ma loro hanno interesse ad arrivare al potere con i propri uomini, che sono la loro espressione: non saranno più sudditi di nessuno. ... Cosa Nostra deve raggiungere l’obiettivo, qualsiasi sia la strada.

In un successivo interrogatorio reso alla Procura di Palermo il Messina precisava ancora più dettagliatamente l’interesse di Cosa Nostra per il movimento leghista. Liborio Micciché, massone e rappresentante della famiglia mafiosa di Pietraperzia e consigliere della «Provincia» di Enna, gli spiegò infatti che «la Lega Nord e all’interno di essa non tanto Bossi, che era un «pupo», quanto il senatore Miglio, era l’espressione di una parte della Democrazia Cristiana e della Massoneria che faceva capo all’On. Andreotti e a Licio Gelli». Inoltre gli confidò che sarebbe poi stata costituita anche una Lega Sud al servizio di Cosa Nostra, in modo che «noi saremmo divenuti Stato». Le fonti di tali informazioni erano proprio Riina e altri componenti della «regione».
Questo infatti sarebbe stato l’argomento della riunione tenutasi a Enna con Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Giuseppe Madonia, Benedetto Santapaola e altri mafiosi minori.
L’ideazione del piano, per cui era stata stanziata la cifra di mille miliardi, era frutto della massoneria. «A tal riguardo, intendo chiarire - continua Messina - che Cosa Nostra e la massoneria, o almeno una parte della massoneria, sono stati sin dagli anni ‘70 un’unica realtà criminale integrata». Erano poi ugualmente coinvolti esponenti della politica, delle istituzioni e forze imprenditoriali.
In occasione di quel vertice, poi, si deliberò anche la morte del giudice Falcone.
Come lo studio della successione degli eventi, comprova Messina, fece delle vere e proprie anticipazioni, fornì inoltre un numero così elevato di dettagli da consentire agli inquirenti una minuziosa verifica del suo racconto.

I riscontri

Le rivelazioni di Leonardo Messina trovano conferma nelle dichiarazioni di moltissimi collaboratori di spicco appartenenti tanto alle diverse famiglie quanto a diverse organizzazioni mafiose.
Maurizio Avola, Malavagna Filippo e Pattarino Francesco, tutti uomini d’onore della provincia di Catania, vicinissimi al boss Nitto Santapaola hanno confermato la finalità eversiva  della riunione che si tenne ad Enna.
Altri collaboranti calabresi, Filippo Barreca e Pasquale Nucera, hanno oltremodo avvalorato la versione del Messina riferendo di accordi presi tra Cosa Nostra Siciliana e la ‘Ndrangheta calabrese, aventi ad oggetto «un’analoga strategia con obiettivi destabilizzanti al fine di realizzare la secessione della Sicilia e del Meridione dal resto d’Italia.
Gianfranco Modeo e Marino Pulito, già appartenenti alla Sacra Corona Unita, hanno invece parlato dei rapporti fra leghe meridionali, mafia pugliese e massoneria «deviata» nell’ambito di un progetto di tipo eversivo in cui sarebbero stati coinvolti, a vario titolo, Licio Gelli e Aldo Anghessa.
Concordi anche i racconti di: Tullio Cannella, uomo di fiducia di Leoluca Bagarella assieme al quale aveva creato le basi per il movimento Sicilia Libera di ovvia ispirazione separatista; Gioacchino Pennino, circa i rapporti tra mafia, ‘Ndrangheta e massoneria; Antonio Galliano, anch’egli a conoscenza del progetto a cui avrebbero partecipato, oltre ad appartenenti di spicco di Cosa Nostra addirittura «Ministri in carica»; Vincenzo Sinacori in merito ai contatti con la mafia americana richiestigli da Bagarella; Salvatore Cancemi, in ordine all’incontro di Riina con le «persone importanti».
Esternamente alle mafie, poi, sono stati presi in esame le conferme di Massimo Pizza, intermediario finanziario legato ad elementi di spicco della criminalità organizzata e di Elio Ciolini, personaggio dalle frequentazioni assai ambigue.
Acquisite come prove anche le indagini «Phoney Money» in ordine alle profonde infiltrazioni della massoneria italiana (specie meridionale) ed internazionale nella Lega Nord, le numerose e oculate investigazioni della DIA, tra cui quelle del «protagonismo politico» in quegli anni di Licio Gelli, Stefano Delle Chiaie e personaggi a loro legati e gli accertamenti sul movimento «Sicilia Libera» che vedeva coinvolti Bagarella, i fratelli Graviano e Giovanni Brusca.

I Catanesi


Filippo Malavagna, nipote del noto Giuseppe Pulvirenti, detto «‘u Malpassotu», in un interrogatorio del 9 maggio 1994, riferì agli inquirenti della possibilità offertagli da Santo Mazzei, altro uomo d’onore della famiglia catanaese di Nitto Santapaola, di «partecipare ad attentati da eseguire in Toscana e a Torino. Questi rientravano in un grande programma di guerra allo Stato che Cosa Nostra, per volontà di Totò Riina, stava portando in essere».
Egli, infatti, si dice al corrente di una “strategia di Cosa Nostra, volta a colpire lo Stato sia in Sicilia che fuori dall’isola”, ideata “in una riunione voluta da Salvatore Riina ... verso la fine del 1991 in provincia di Enna”. In pratica, il Malpassotu gli confidò una frase specifica del boss, «Si fa la guerra per fare la pace». Il Pulvirenti, inoltre, gli spiegò che si era deciso «che tutte le future azioni terroristiche di Cosa Nostra venissero rivendicate con la sigla ‘Falange Armata’». Informazioni di grandissima rilevanza per le indagini a seguire.
Tra la fine del 1993 e l’inizio del 1994 il Malavagna aveva poi saputo da un codetenuto, Marcello D’Agata, consigliere della provincia catanese, che la strategia aveva dato i suoi frutti poiché si «erano creati nuovi agganci con pezzi delle istituzioni e della politica» e che quindi entro un paio d’anni «le cose si sarebbero sistemate di nuovo».
«In perfetta sintonia con Leonardo Messina» anche Francesco Pattarino, figlio del boss Francesco Mangion, sia per quanto concerne la riunione di Enna che per il progetto separatista. In aggiunta questi ha sottolineato il malcontento che serpeggiava nelle carceri all’indomani delle stragi poiché non si sfruttavano «a sufficienza gli strumenti a disposizione per colpire i collaboratori di giustizia» e in quest’ ambito, riferisce Pattarino, «si inserisce il discorso che mi fece il Cilona (...) in particolare sulla circostanza che aveva messo «nelle mani’ di chi era fuori alcune sue importanti amicizie, tra cui quella di Dell’Utri Marcello».
Maurizio Avola, altro collaborante di primo piano, ha riportato le dichiarazioni di Aldo Ercolano ed Eugenio Galea, nel 1992 alla reggenza della provincia di Catania, di ritorno da una riunione con Riina in cui si era deciso di «attaccare lo Stato» e di «creare un nuovo partito politico nel quale inserire uomini di Cosa Nostra incensurati, che avrebbero così potuto curare direttamente gli interessi di Cosa Nostra». Ancor più specificatamente si aveva come «obiettivo ultimo quello di dare una ‘spallata’ al vecchio sistema politico e creare le condizioni idonee perché si affermasse quella nascente forza politica di cui Galea aveva appreso nel corso di quella riunione». Il tutto con  azioni di tipo terroristico da rivendicare con il nome di “falange armata”. Avola però, fornisce ulteriori elementi. «In   epoca successiva alle stragi, durante un colloquio con Marcello D’Agata, questi ebbe ad accennarmi al proposito di ‘fare un altro favore ai politici’ uccidendo il dottor Antonio Di Pietro», precisando che la soppressione di Di Pietro sarebbe stata richiesta a Cosa Nostra «per tutelare presunti interessi illeciti dell’on. Bettino Craxi e del sen. Cesare Previti, messi in pericolo dalle indagini del magistrato».
Si colgono immediatamente i nessi tra le varie posizioni dei collaboranti avallate da altrettanti riscontri, come ad esempio le reali rivendicazioni come «falange armata» degli attentati del ‘93 riconosciute anche da Brusca, Cannella, Grigoli e Sinacori.

I Palermitani


Sono Antonino Galliano, Tullio Cannella, Gioacchino Pennino, Giovanni Brusca e Salvatore Cancemi. Sebbene da diversi punti di vista, tutti e cinque i collaboratori hanno fornito pezzi fondamentali a completamento del puzzle che comunque mantiene il medesimo tema del progetto separatista.
Galliano, uomo d’onore della famiglia della Noce, era vicinissimo a Raffaele Ganci, uno dei fedelissimi di Riina, che ha sempre confessato di avere la «Noce nel cuore». Il Ganci gli aveva confidato che vi era stata una riunione fuori dalla Sicilia. «Non mi disse che persone c’erano, però mi disse che c’erano ministri in carica in quel periodo... siamo, diciamo, nel periodo ultimo, nel periodo finale della Prima Repubblica. ... Il punto cardine di questa riunione era l’aggiustamento di questa sentenza (il maxi-processo ndr.).
... Mimmo Ganci così mi disse. E che nel contempo stavano, diciamo, mettendo in atto qualche cosa che dovesse destabilizzare lo Stato; cioè loro dice che volevano mettere in pratica il progetto del dopoguerra, cioè staccare la Sicilia dal resto d’Italia.
... la riunione... con grossi personaggi politici e lui mi disse, mi sottolineò, dice: ‘Con uomini di una certa importanza, figurati - mi disse - che ci sono, nel mezzo, anche ‘ministri in carica’.
... C’erano grossi esponenti delle istituzioni dello Stato. Mi disse che c’erano: giudici, prefetti, gente di... diciamo del mondo economico, di tutte le svariate... tipi di persone».
Tullio Cannella, invece, partecipa direttamente alla formazione di «Sicilia Libera» in quanto vicino a Leoluca Bagarella, ideatore del movimento «che in realtà affondava le proprie radici in un ben più ampio piano strategico, il cui contenuto egli apprese personalmente da Bagarella e da altri uomini d’onore (Filippo Graviano, Iano Lombardo, Vincenzo Inzerillo, Cesare Lupo).»
E’ Vito Ciancimino, però, a meglio delucidare al Cannella le motivazioni per cui alla riunione a Lamezia Terme cui prese parte vi fossero uomini politici rappresentanti delle varie leghe apparse in tutta Italia rivelandogli che dietro la costituzione della Lega Mediterranea a cui tutte dovevano confluire vi era l’apporto ideativo di Provenzano. In particolare si doveva dare l’impressione che vi fosse antagonismo tra la lega Nord e la lega Sud, mentre, invece, lo scopo unico da perseguire era la separazione dell’Italia.
Pur coltivando questo progetto destabilizzante sia Provenzano che i Graviano ritenevano che i tempi di attuazione fossero davvero troppo estesi per cui occorreva trovare una soluzione che soddisfacesse le immediate esigenze di Cosa Nostra: «i processi, i magistrati, i pentiti e il carcere». Per questo motivo «si impegnarono e profusero le loro energie per favorire ed appoggiare l’affermarsi di un nuovo partito politico e cioè Forza Italia». Anche Bagarella, alla fine, propense per questa soluzione anche se non voleva «fare lo stesso errore del cognato (Riina ndr)» cioè «dare troppa fiducia ai politici». Tuttavia
vi era una così «ampia convergenza» tra i progetti di Forza Italia e quelli dei movimenti separatisti come ad esempio «fare della Sicilia un porto franco» che Bagarella si convinse. Graviano fu determinante in questo senso: «Ti sei messo in politica, ma perché non lasci stare, visto che c’è chi si cura dei politici..., ci sono io che ho rapporti ad alti livelli e ben presto verranno risolti i problemi che ci danno i pentiti».
Sia Cannella che Pennino, uomo d’onore, massone, medico e politico della DC, sottolineano il ruolo della massoneria e il suo «profondo radicamento di quest’ultima all’interno della società e delle istituzioni siciliane e la stabilità delle relazioni fra criminalità siciliana e calabrese proprio tramite la massoneria».
A questo proposito il Cannella aveva specificato che Ciancimino gli disse: «Devi sapere che la vera massoneria è in Calabria e che in Calabria hanno appoggi a livello dei servizi segreti».
Da ultimo egli ha confessato di avere saputo nel 1993 sia dai vertici di Cosa Nostra che dai suoi contatti politici che «vi era stata una grande preoccupazione nell’ambiente politico e imprenditoriale ad alto livello, per ciò che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino avevano appreso nel corso delle loro indagini. Vi era stato il timore che ex esponenti della Procura palermitana arrivassero ai vertici delle istituzioni. In particolare, che l’On. Giuseppe Ayala arrivasse al ministero degli Interni, che il dott. Giovanni Falcone fosse nominato Procuratore alla Procura Nazionale Antimafia e il dott. Paolo Borsellino in un ruolo di vertice nella Procura della Repubblica di Palermo. Questo temuto progetto si riteneva possibile perché alcuni esponenti politici di vertice erano considerati ‘nelle mani’ di Giovanni Falcone, il quale era a conoscenza dell’accordo che in passato Martelli aveva stretto con Cosa Nostra».
Forse si comincia ad intravedere il significato di quel «gioco grande» di cui parlava il giudice assassinato dalla viltà mafiosa.
Brusca e Cancemi hanno sostanzialmente ribadito quanto espresso in altri procedimenti. Il primo inserisce con certezza la morte di Salvo Lima e l’omicidio Falcone, di cui è stato l’esecutore materiale, in una più ampia strategia che vede certamente coinvolta la Lega Nord. Tuttavia cita un aneddoto in cui Riina si rifiuta di incontrarsi con Bossi per le sue eccessive stravaganze. «Ma come si può avere a che fare con uno di questi?».
Salvatore Cancemi, costituitosi spontaneamente ai carabinieri il 22 luglio 1993, ha fornito l’imput per le indagini sui possibili suggeritori esterni della strategia stragista.
Egli infatti racconta che Raffaele Ganci gli fece capire che la decisione di eliminare Falcone fu presa dopo che Riina aveva avuto un incontro con «persone importanti».
Vincenzo Sinacori, reggente del mandamento di Mazara del Vallo, fornisce un nuovo elemento di grande importanza: il tentativo di coinvolgere nel piano separatista anche gli Stati Uniti. Infatti Matteo Messina Denaro, capo assoluto della provincia di Trapani e superlatitante, gli aveva chiesto di interessarsi, tramite Rosario Naimo, uomo d’onore della famiglia di San Lorenzo nonché personaggio di Cosa Nostra americana, di sondare un possibile appoggio al progetto separatista. Offerta reclinata poiché «fuori tempo».

I Calabresi

Sono Filippo Barreca e Pasquale Nucera i collaboratori che hanno «tradito» la ‘Ndrangheta rivelando agli inquirenti nuovi preziosissimi indizi.
Barreca, che ricopriva un ruolo di spicco all’interno dell’organizzazione, ha incentrato il suo contributo sul ruolo dell’avvocato Paolo Romeo indicandolo come «l’anello di congiunzione tra la struttura mafiosa e la politica» per la Calabria nonché «l’elemento di collegamento fra Cosa Nostra siciliana e la ‘ndrangheta reggina».
Egli ha inoltre affermato che «la regia del disegno separatista era da ricercarsi a Milano dove era avvenuto un incontro tra i clan calabresi facenti capo ai Papalia ed esponenti di Cosa Nostra siciliana». Più incisivi i ricordi di Pasquale Nucera circa i temi che vennero trattati, il 28 settembre 1991, nel santuario di Polsi dove si tiene l’annuale riunione della ‘Ndrangheta, cui prese parte in veste di rappresentante della famiglia Iamonte.
Vi avevano partecipato diversi esponenti delle famiglie napoletane, calabresi provenienti da diverse parti del mondo, un certo Rocco Zito per Cosa Nostra americana e un personaggio di Milano, un «colletto bianco» dall’accento anglo-americano, legato alla mafia siciliana e calabrese, con interessi in Jugoslavia.
Quest’ultimo, tale Giovanni Di Stefano, avvertiva che ci sarebbero stati degli sconvolgimenti in Italia per cui poi sarebbe stata necessaria una pacificazione.
A riprova di quanto già dichiarato da Barreca e da Pennino «al più alto e ristretto livello della gerarchia della ‘Ndrangheta appartengono anche elementi della ‘massoneria deviata’ e - ha aggiunto Nucera - anche dei ‘servizi deviati’. Una commistione che sarebbe conseguenza di una iniziativa di Licio Gelli che, per controllare i vertici della ‘Ndrangheta, aveva fatto in modo che ogni componente della ‘santa’ venisse inserito automaticamente nella massoneria deviata’».
Anche Avola aveva spiegato agli inquirenti che allo stesso modo i vertici di Cosa Nostra sono inseriti nella massoneria deviata a far data dalla fine degli anni 70. In particolare «Benedetto Santapaola, in virtù del suo inserimento nella massoneria segreta, era stato presentato a personaggi autorevoli del mondo accademico e delle istituzioni di Catania».

I Pugliesi

L’infiltrazione di personaggi quali Licio Gelli e il faccendiere Aldo Anghessa negli ambienti mafiosi è stata testimoniata anche da collaboratori della criminalità pugliese quali Gianfranco Modeo e Marino Pulito.
Il primo riferisce che «ben prima della stagione stragista del ‘92-’93» il fratello Claudio, anch’egli elemento di spicco nella criminalità organizzata, era stato avvicinato da noto faccendiere Aldo Anghessa nel carcere di Bari. Questi, avvisandolo che «stava crollando tutto il sistema anche politico che aveva agevolato la criminalità organizzata», intendeva convincerlo a coinvolgere la propria organizzazione criminale in una strategia già avviata «di attentati indiscriminata». Lo informava inoltre che «i palermitani avevano già accettato questa proposta che gli era stata fatta da Licio Gelli il quale era andato appositamente a Palermo». Modeo rifiutò. Seppe poi da Nino Madonia che analoga offerta fu fatta anche ai calabresi.
Marino Pulito conferma infatti che proprio in quel periodo si «intensificarono i rapporti di Licio Gelli con personaggi aderenti o vicini alla Sacra Corona Unita». In cambio di appoggi per l’esperienza politica dei movimenti leghisti meridionali si era reso disponibile per «l’aggiustamento dei processi in Cassazione».
Due contributi importantissimi che consentono di affermare il reale coinvolgimento di soggetti esterni alle tre maggiori mafie italiane «se non in qualità di veri e propri ‘ispiratori’ (come, per la verità, sembrerebbe proporsi Anghessa per il tipo di prospettazioni fatte a Claudio Modeo), quanto meno come soggetti ‘interessati’ alla sua realizzazione».

Le indagini

«Accuminciaru finalmente», disse Salvatore Montalto a Gaspare Mutolo, commentando con soddisfazione l’omicidio di Salvo Lima con «evidente allusione ad un ben preciso ‘programma di attentati’ del quale questo costituiva solo il primo atto».
Ed è questa la pista investigativa seguita dagli inquirenti che ha portato «elementi di prova autonomi ed elementi di riscontro delle dichiarazioni dei collaboranti».
Hanno rivestito una certa rilevanza le informazioni fornite da Elio Ciolini, ambiguo personaggio legato al mondo dei servizi segreti, ad ambienti massonici e dell’eversione nera il quale rivelò dell’esistenza del piano prima ancora dell’omicidio Lima.
Infatti, arrestato il 4 marzo 1992, otto giorni prima del delitto, inviava una missiva al Tribunale di Bologna il cui oggetto era esplicitamente «nuova strategia tensione in Italia - periodo: marzo-luglio 1992». A meno che il Ciolini non fosse dotato di poteri di chiaroveggenza, some sottolineano i procuratori, significa che fosse a conoscenza del progetto in questione.
Infatti scrive dell’intenzione di «destabilizzare l’ordine pubblico con esplosioni dinamitarde», del «sequestro ed eventuale omicidio di esponente politico PSI, PCI, DC» o del «futuro Presidente della Repubblica».
«Tutto questo si era deciso a Zagabria - Yu - (settembre 91) nel quadro di un ‘riordinamento politico’ della destra europea e in Italia è inteso ad un nuovo ordine ‘generale’ con i relativi vantaggi economico finanziari (già in corso) dei responsabili di questo nuovo ordine deviato massonico politico culturale, altamente basato sulla commercializzazione degli stupefacenti».
All’indomani dell’omicidio Lima, Ciolini aveva esordito con un «avete visto cosa è successo?» Dichiarava di aver appreso del piano in una riunione tenutasi a Sissak (Ex-Jugoslavia) alla quale avevano partecipato «alcuni esponenti della destra internazionale tra cui un americano e un austriaco. Il finanziamento di tale organizzazione sarebbe avvenuto con la vendita di grosse partite di stupefacenti e con la gestione di raffinerie di droga».
Nei suoi appunti, per molti versi, di notevole rilevanza, vi è l’indicazione alla prossima futura elezione di Andreotti e della «pressione» a cui si sarebbe dovuto sottoporre il senatore. Insomma si voleva «creare intimidazione nei confronti di quei soggetti e Istituzioni stato (forze di polizia ecc) affinché non abbiano la volontà di farlo e distogliere l’impegno dell’opinione pubblica dalla lotta alla mafia, con un pericolo diverso e maggiore della mafia».
Non si possono non collegare a questo punto le dichiarazioni di Vito Ciancimino (di cui abbiamo approfondito il ruolo all’interno della «trattativa» nei numeri precedenti) il quale ha espresso la sua «convinzione» che dietro le stragi del ‘92 vi  fosse un «disegno politico».
«Sono certo che vi era qualcuno particolarmente ostile alla candidatura di Andreotti: si tratta di colui il quale io penso potrebbe essere stato un ‘architetto’ del disegno politico che, tramite l’omicidio Lima, e soprattutto le modalità eclatanti dell’uccisione di Falcone, aveva come obiettivo quello di ‘sconvolgere il Parlamento’».
Ragionamento poi confermato anche da Giovanni Brusca che, più volte, ha ribadito come l’uccisione di Falcone «era particolarmente auspicata dal Riina, che voleva così assestare anche un colpo decisivo alle speranze che allora il Sen. Andreotti coltivava di essere eletto Presidente della Repubblica».
Dotata di una certa preveggenza anche l’agenzia di stampa Repubblica che «intuì» non solo l’intero progetto criminale, ma profetizzò, con uno scarto di 24 ore, l’omicidio Falcone. In un articolo del 22 maggio 1992 incentrato sulla tensione politica di quei mesi, infatti, riferì ad «un bel botto esterno»  la possibile soluzione per uscire dal blocco istituzionale in cui si trovava il Paese.
In realtà l’autore dell’articolo sarebbe risultato essere l’on. Vittorio Sbardella, leader DC vicino a Salvo Lima, e il direttore dell’agenzia, Ugo D’Amico figlio di quel Lando che fu vicino al principe Junio Valerio Borghese ai tempi del tentato golpe e coinvolto nella strage di Piazza Fontana.
 
Le leghe meridionali

A tutto il quadro probatorio si vanno ad assommare le informative della Dia sulla formazione impressionante nel numero di leghe sparse in tutta Italia.
Tra l’8 maggio e il 18 maggio Stefano Delle Chiaie, assieme a Menicacci Stefano, avvocato di Delle Chiaie e suo socio in affari, e Romeo Domenico, pregiudicato per reati comuni, ha fondato ben 6 leghe regionali aventi come sede sociale lo studio del Menicacci. Gelli stava facendo la stessa identica cosa con altri personaggi, massoni e pregiudicati, nel medesimo periodo.
Dalle indagini, come si è precedentemente accennato, emerge che la Lega Lombarda fungesse da catalizzatore per questi movimenti, mentre è provato che vi fosse all’interno della Liga Veneta, una «significativa componente legata agli ambienti della eversione nera, che sfoceranno poi anche nell’esperienza delle leghe meridionali».
Lo scopo era di pervenire alla «frammentazione del paese in stati federali» che «avrebbe consegnato il sud all’egemonia del sistema criminale, e ciò anche grazie alla regionalizzazione del voto e all’introduzione del sistema uninominale che esaltavano la potenzialità da parte delle organizzazioni mafiose e delle lobbies criminali».

Licio Gelli

Il suo nome emerge in maniera esplicita ed implicita in diversi ambiti dell’inchiesta. Massone, Gran Maestro della loggia P2, noto per il suo smisurato potere che esercitava in diversi ambienti di tipo criminoso.
Relativamente agli anni in questione la Dia ha segnalato due sue dichiarazioni inquietanti circa gli accadimenti criminosi del 92-93, nei quali si rivolge alla classe politica come «teppaglia che ci sta rapinando», giustificando con il mal contento generale le condizioni per un «colpo di Stato». Ma ciò che più sorprende è l’elezione di Bossi a «unica speranza in questo paese alla deriva». (L’Europeo 10.9.1992)
In un ‘altra intervista, questa volta rilasciata a Paese Sera il 3 agosto 1993 dal titolo Prevedo una rivoluzione in cui intravedeva, appunto, segnali di una vera e propria rivolta che avrebbe portato «il processo di ricambio della classe politica».
Argomenti che riecheggiano perché già resi noti dal collaboratore Maurizio Avola che si espresse quasi con le stesse identiche parole quando riferì del progetto di Riina. «Il popolo esasperato sarebbe stato propenso ad appoggiare gli uomini che sarebbero scesi tempestivamente in campo, sbandierando a parole un programma di rinnovamento...».
Il collegamento di Gelli con la criminalità, oltre ad essere comprovato da atti acquisiti, come abbiamo visto, è testimoniato da diversi collaboratori di giustizia, tra cui Francesco Marino Mannoia secondo il quale Pippo Calò, Salvatore Riina e Francesco Madonia si avvalevano di Gelli per i loro investimenti a Roma. Egli era il «banchiere» di questo gruppo così come lo fu Sindona per quello di Bontade e Inzerillo.
Gioacchino Pennino, inoltre, ha specificato come i rapporti già esistenti tra Gelli e Bontade subirono una frattura nel 1979 quando il massone non appoggiò il golpe voluto da Sindona. Ebbe invece un ruolo chiave nella ristrutturazione dei rapporti tra mafia e massoneria voluta dai corleonesi e in particolare da Bernardo Provenzano con la costituzione del Terzo Oriente, «un’organizzazione massonica ancora più ‘coperta’ nata per ‘riciclare’ l’esperienza della P2».
Vi sono poi eguali riscontri circa il legame con esponenti della ‘Ndrangheta. Bruno Villone, vigile urbano a Vibo Valentia, ha affermato di aver «personalmente notato, dall’agosto dell’89 in poi, il Gelli recarsi di frequente a Vibo Valentia, assieme al Delle Chiaie (ed il Gelli in particolare, frequentare fino al 1993 la sede di una loggia massonica locale)».

Inversione di rotta

Si è potuto vedere come, da deposizioni di Tullio Cannella, Leoluca Bagarella avesse ideato e creato il movimento di Sicilia Libera appoggiato dai vertici di Cosa Nostra. Attorno al 1994, però, il progetto andò via via scemando poiché si era deciso di «orientare l’appoggio di Cosa Nostra verso un’altra formazione politica». «Bagarella, infatti, disse esplicitamente a Cannella che alle elezioni del 1994 occorreva appoggiare Forza Italia» il cui programma politico concepiva anche una forma forte di federalismo.
Si collocano in questo ambito le dichiarazioni di Massimo Piazza che conferma il fallimento dell’azione leghista a causa del «voltafaccia», primo di Licio Gelli, e poi di Andreotti e di altri esponenti politici che «prima avevano promesso di appoggiarlo e poi si erano tirati indietro perché avevano ad un certo punto iniziato a diffidare delle persone che vi erano implicate».
Ad ulteriore conferma va segnalato che il sen. Dell’Utri, uno dei principali artefici del progetto politico di Forza Italia, aveva segnati nelle sue agende e rubriche telefoniche sequestrate, i nomi di coloro che risultavano comporre «un tessuto di relazioni che legava molti dei principali esponenti siciliani del nuovo movimento politico ai protagonisti della più recente stagione ‘meridionalista’.’

Conclusioni


Risulta più che comprovata, quindi, la struttura portante del progetto che aveva fin dall’inizio lo scopo di riassestare gli equilibri politici nel Paese in modo da soddisfare le esigenze di tutti quei poteri forti, incluse Cosa Nostra e le altre mafie. Gli omicidi di Lima, Falcone, Borsellino e le stragi del 1993 sono state senza dubbio funzionali al raggiungimento di tale fine tanto più che si trovavano proprio al centro di quella famosa convergenza di interessi di cui si possono, con la presente inchiesta, vedere i contorni.
E’ poi accertato che, prima ancora della definitiva decisione di attuare gli atti violenti, vi fu «un’azione coordinata proveniente da ambienti della massoneria deviata (già legati soprattutto alla P2 e a Licio Gelli), dalla destra eversiva (facente riferimento soprattutto a Stefano Delle Chiaie) e della criminalità organizzata».
Tuttavia, secondo i giudici, vi sono diversi aspetti ancora non chiari che non consentono di stabilire, al di là di ogni ragionevole dubbio, il nesso specifico tra la strategia stragista e il sorgere dei movimenti politici meridionali e la prova della costituzione di una vera e propria società finalizzata alla realizzazione di un programma eversivo-secessionista.
Anche la cosiddetta «trattativa con papello» si inserisce in maniera ancora non del tutto limpida nel presente inquadramento. Poiché dalle ricostruzioni dei collaboratori e specificatamente secondo Brusca, Riina con le sue richieste cercava nuovi referenti e quindi un aggancio politico di tipo «tradizionale». Questo ovviamente, però, non esula dall’ipotizzare che il capo di Cosa Nostra stesse giocando su più tavoli differenti strategie o che le due cose non costituissero assieme una sorta di «minaccia aggiunta» cui lo Stato era costretto a rispondere.
Non si può poi nemmeno sottovalutare che la «strategia stragista improvvisamente cessò anche per scelta di Cosa Nostra e che ciò avvenne quasi contestualmente al definitivo disimpegno rispetto all’esperienza dei movimenti meridionalisti, cui seguì il massiccio investimento di uomini e risorse verso altre formazioni politiche.
Se poi ciò sia avvenuto anche per effetto della prosecuzione e dell’esito della trattativa è ipotesi logicamente plausibile, ma non sufficientemente provata».

Giorgio Bongiovanni

Tutti i corsivi riportati nel seguente articolo sono tratti integralmente dalla richiesta di archiviazione del proc. pen. n° 2566/98 R.G.N.R.

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