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di Giovanni Falcone 

Il pezzo che segue è tratto da un'annotazione manoscritta del giudice Falcone per i lavori di un comitato della sezione siciliana dell'Associazione nazionale magistrati. Il 27 ottobre del 1990 fu approvato, nel  corso dell'assemblea nazionale dell'Associazione, il documento finale nel quale vi è stata successivamente inserita una frase che teniamo a riportare: “Il fenomeno mafioso si colloca ormai in un ambito principalmente politico, perché sotto le vesti della democrazia, si intravedono sempre più rapporti di potere reale basati sul decadimento del costume morale e civile, su intrecci fra istituzioni deviate e organizzazioni occulte, su legami tra mafia e politica”.

Il fenomeno del pentitismo, valutato spesso in modo troppo emozionale fin quasi a demonizzarlo, costituisce in realtà uno dei temi fondamentali su cui si gioca il buon esito della riforma del processo penale. E' necessario riaffermare ancora una volta che, in un processo penale dominato dall'oralità e dalla formazione dibattimentale della prova, non si può fare a meno, soprattutto in tema di reati di criminalità organizzata, del “teste della Corona” e cioè delle dichiarazioni di coloro che, proprio per avere fatto parte di organizzazioni criminose, sono in grado di riferire compiutamente dall'interno le dinamiche e le attività illecite delle organizzazioni stesse. Si tratta di concetti così scontati, e perfino banali, che è veramente singolare che ancora non si disciplini tale delicata materia, lasciando inaridire una possibilità di indagini utilissima. E se è vero - come è vero - che una delle cause principali, se non la principale, dell'attuale strapotere della criminalità mafiosa risiede negli inquietanti suoi rapporti col mondo della politica e con centri di potere extraistituzionale, potrebbe sorgere il sospetto, nella perdurante inerzia nell'affrontare i problemi del pentitismo, che in realtà non si voglia far luce sui troppi, inquietanti misteri di matrice politico-mafiosa per evitare di rimanervi coinvolti. Né si dica che il cosiddetto pentitismo può essere uno strumento di indagini rischioso, data la dubbia attendibilità dei collaboratori della giustizia, e che, comunque, potrebbe disabituare gli organismi investigativi dal compiere le indagini. Quanto al primo punto, è agevole replicare che l'indubbio rischio esistente si supera con la professionalità dei magistrati e degli investigatori, e che se si vogliono ottenere risultati, in qualunque settore, è necessario affrontare dei rischi seppur cercando di evitarli; quanto al secondo, basta ricordare che vi sono Paesi in cui da secoli si fa largo uso dei “pentiti” e gli organismi di polizia non hanno certamente una professionalità inferiore alla nostra.
Il tema del pentitismo si articola in due aspetti che sono certamente distinti, anche se spesso vengono trattati unitariamente: quello della incentivazione alla collaborazione con la giustizia e quello della tutela dei dichiaranti e dei loro familiari. Cominciando dal primo punto, giova anzitutto rilevare che attualmente il sistema processualpenalistico e l'ordinamento penitenziario hanno determinato, mi auguro inconsapevolmente, la paradossale situazione per cui nessun soggetto può ragionevolmente ritenere utile di collaborare, poiché gliene deriverebbe soltanto un gravissimo rischio per la sua persona e per quella dei familiari, e non allevierebbe di nulla la sua situazione processuale. Per contro, sono ormai tali e tante le provvidenze e i benefici per i soggetti, anche i più pericolosi per la società, che, di fronte ad una pena irragionevolmente lieve e ad una esecuzione della stessa non meno irragionevolme
nte benevola, non si riesce a comprendere per quale motivo si dovrebbe ancora trovare chi sia tanto stolto da ritenere di discostarsi dalla consegna del silenzio anche più ostinato.
La realtà è che, pietra dopo pietra, si è costruito un edificio giudiziario in cui, distorcendo valori di democrazia e di garanzia dei diritti del singolo certamente condivisibili, si è pretermessa la tutela, non meno fondamentale, della collettività, dando luogo a provvedimenti legislativi di scandaloso favore e di inammissibile lassismo nei confronti di pericolosi criminali; e tutto ciò mentre la criminalità organizzata, anche per effetto di questi atteggiamenti del potere politico, prosperava indisturbata e, per contro, i “pentiti” ed i loro familiari venivano decimati dalle vendette dei compagni di un tempo nell'assoluto disinteresse delle istituzioni e, bisogna dirlo, anche della società. Adesso, occorre finalmente riconoscere che, senza la previsione di effetti favorevoli in termini di quantità di pena discendenti direttamente dalla collaborazione, non ci sarà più nessuno, in un ordinamento disciplinato
dal principio della obbligatorietà della azione penale, disposto a confessare i propri crimini e ad indicare i correi.
Alcuni timidi passi in questa direzione cominciano ad essere mossi. Ci si intende riferire alla modifica del quarto e quinto comma dell'art. 630 del codice di procedura penale con cui la dissociazione in tema di sequestro di persona comporta significative riduzioni di pena, ed al comma settimo degli artt. 71 e 71 bis della legge sugli stupefacenti, che prevedono analoghe riduzioni di pena nel caso di coloro che collaborano nel settore della droga. Non sfuggirà, tuttavia, la singolarità della situazione attuale, in cui soltanto per alcune fattispecie criminose, fra quelle tipiche della criminalità organizzata, è prevista la riduzione di pena in caso di collaborazione con la giustizia. E' improcrastinabile, dunque, l'introduzione, in forma di attenuante generica, di una attenuante di carattere generale per tutti i reati di matrice mafiosa, e, ovviamente anche per il reato-mezzo e, cioè, per il delitto di associazione mafiosa di cui all'art. 416 bis del codice penale.

Né queste misure premiali dovrebbero limitarsi alla fase della irrogazione della pena, poiché un adeguato ampliamento dei benefici attualmente previsti in via generale dall'ordinamento penitenziario costituirebbe un'ulteriore e non marginale spinta verso la collaborazione. Val la pena di rilevare, del resto, che - a fronte delle spesso opinabili valutazioni di reinserimento sociale che stanno a base di tante concessioni di benefici a favore di condannati - per quanto riguarda i collaboratori vi sarebbe il dato saldo ed inequivoco derivante dalla avvenuta collaborazione con la giustizia risultante da sentenza passata in giudicato.
Passando, adesso, al tema della protezione dei dichiaranti e dei loro familiari, è appena il caso di rilevare che, pur essendo concettualmente distinto dalla normativa premiale, si risolve anch'esso, sia pure in forma indiretta, in una incentivazione della collaborazione. Non è chi non veda, infatti, che, senza una effettiva ed adeguata protezione, non sarà certamente la sola previsione di sconti di pena o, in genere, di un migliore trattamento processuale che indurrà a collaborare chi conosce benissimo i rischi di eliminazione fisica cui andrebbe incontro. Va soggiunto che il tema della protezione riguarda, naturalmente, non soltanto i “pentiti” ma tutti coloro che, anche senza aver partecipato ad alcuna impresa criminosa, sono chiamati a testimoniare per esserne informati. Anzi, per questa  categoria di soggetti, il problema della protezione è forse ancora più moralmente cogente, poiché si tratta di persone
che si trovano a dover correre rischi gravissimi solo perché sono chiamati all’espletamento di un dovere civico, la testimonianza, nell’interesse esclusivo della collettività. In altri termini, occorre garantire libertà di autodeterminazione al singolo nelle vicende giudiziarie in cui, anche senza sua responsabilità, è coinvolto, in presenza di organizzazioni criminali che faranno di tutto per indurlo a tacere. E’ evidente dunque che l’intervento delle istituzioni deve avere come esclusiva finalità la tutela della incolumità fisica dei dichiaranti e dei loro familiari, senza la concessione di alcun privilegio o di trattamenti di favore che non siano inevitabile conseguenza della suddetta finalità di tutela.
In questa ottica, occorre anzitutto una seria ed obiettiva valutazione sia della necessità di protezione sia dei mezzi più adeguati, in una con un prudente apprezzamento della non manifesta inattendibilità di chi è pronto a collaborare con la giustizia o ha già iniziato questa collaborazione. Appare preferibile, per intuitive ragioni, riservare questa complessa valutazione ad un organismo collegiale che, senza formalità di procedura e su richiesta del pubblico ministero, possa stabilire con tempestività se e quali misure di protezione debbano essere adottate caso per caso. Dovrebbe essere previsto, altresì, in caso di urgenza tale da non tollerare il tempo, seppur breve, per la decisione della commissione, la possibilità di decidere, in via provvisoria e salvo ratifica, al presidente della stessa. Dovrebbe restar salva, comunque, la possibilità per le singole forze di polizia di provvedere autonomamente alla pr
otezione dei soggetti a rischio per effetto delle loro dichiarazioni, naturalmente fino al provvedimento della commissione in questione e con l’obbligo di informarne al più presto il pubblico ministero. Quanto alla composizione della commissione sembra necessario che della stessa – da costituire presso il Ministero dell’interno o, preferibilmente, presso la Presidenza del Consiglio dei ministri – facciano parte magistrati del pubblico ministero (nominati dal Consiglio superiore della magistratura) e appartenenti alle forze dell’ordine con specifica e diretta conoscenza di problemi riguardanti la criminalità organizzata. Detto organismo dovrebbe periodicamente riferire sui criteri adottati e sui risultati conseguiti, al fine di consentirne una valutazione da parte del Parlamento anche per quanto riguarda l’entità degli stanziamenti di bilancio.
L’esecuzione delle misure di protezione, punto centrale del tema in questione, non dovrebbe essere in alcun modo affidata agli stessi organismi investigativi preposti alle indagini, poiché ciò potrebbe risolversi in un’inammissibile commistione di ruoli e perfino nella coartazione della volontà del dichiarante. Si tratta di un punto irrinunciabile per garantire la genuinità delle acquisizioni probatorie e per assicurare il buon funzionamento della protezione. Sarebbe indubbiamente preferibile, in proposito, che venisse creato, sulla falsariga di quanto da tempo avviene in altri Paesi, un organismo specificamente preposto alla protezione; ma, per intanto, è comunque necessario evitare qualsiasi commistione di ruoli fra investigatori e personale addetto alla protezione. Circa, poi, il contenuto di tali misure, sembra evidente che, a parte quelle che comportano interventi di natura legislativa, le stesse non possa
no avere una rigida predeterminazione, dovendo essere riservato all’organo esecutivo, nell’ambito dei criteri stabiliti e del finanziamento erogato dalla commissione, di stabilire con sufficiente discrezionalità il contenuto concreto delle misure da adottare.
Per quanto riguarda i dichiaranti in stato di detenzione, dovrebbe essere previsto un regime differenziato, preferibilmente in apposite strutture carcerarie, per evitare, nel più rigoroso rispetto dell’ordinamento penitenziario, situazioni di pericolo esterne ed interne al carcere. Dovrebbe essere, comunque, prevista la possibilità del cambio di identità e del rilascio di documenti di comodo per assicurare l’anonimato del dichiarante.
Si segnala, ancora, l’opportunità di una riforma del codice di procedura penale, al fine di evitare formalità che, da un lato, non sono essenziali per il diritto di difesa dell’indagato e, dall’altro, si risolvono nell’intempestiva ed estremamente pericolosa conoscenza del nome del dichiarante prima che ciò sia reso necessario da reali esigenze di difesa.
Infine, tenuto conto delle caratteristiche geografiche del nostro Paese e delle potenzialità delle organizzazioni criminose, si segnala l’opportunità di incrementare, attraverso il ricorso a convenzioni internazionali, il trasferimento in Paesi esteri dei dichiaranti, anche se in stato di detenzione (attraverso il meccanismo dell’esecuzione della pena all’estero), e dei loro familiari.

Articolo pubblicato sul numero di ANTIMAFIAduemila giugno 2003

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