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Brano tratto dal libro “Giovanni Falcone: interventi e proposte. 1982-1992” a cura della fondazione “Giovanni e Francesca Falcone”, (ed. Sansoni)

di Giovanni Falcone

Prima di poter affrontare la questione se il modello mafioso di criminalità organizzata sia esportabile dall’Italia in altri Paesi, è necessario considerare il fenomeno mafioso più da vicino, delimitandolo e mettendo da parte l’idea confusa e folcloristica che di esso circola. In Italia le organizzazioni criminali di rilievo internazionale sono la camorra, localizzata soprattutto in Campania, la ‘ndrangheta, che opera in Calabria, e la mafia, o meglio Cosa nostra - che ne è la denominazione più esatta - diffusa in Sicilia. Tutte e tre le organizzazioni possono essere definite in generale come mafiose o di tipo mafioso, in quanto operano secondo metodi che sono tipici della mafia: violenza e intimidazione, attraverso cui producono tra la popolazione una condizione generale di sottomissione e di omertà. Al di là di questi elementi comuni, ogni organizzazione ha strutture e caratteristiche proprie.
 
La camorra oggi consiste solo di alcune organizzazioni locali spesso in concorrenza tra loro, che esercitano essenzialmente il commercio internazionale della droga (soprattutto cocaina). I tentativi compiuti per raggrupparla in un’organizzazione unitaria e centralizzata sono finora falliti. Il tentativo più importante è stato quello del famoso Raffaele Cutolo e finì in un bagno di sangue all’inizio degli anni Ottanta. Successivamente - quantomeno fino ad oggi - si è affermata una struttura organizzativa prevalentemente orizzontale, che rivendica il monopolio delle attività illecite nel territorio campano e che si allarga sempre più anche nei territori confinanti. Dopo la sconfitta definitiva di Cutolo, che era un nemico acerrimo della mafia siciliana, e dopo il catastrofico terremoto che nel dicembre del 1980 ha distrutto larghe zone della Campania, la situazione della sicurezza e dell’ordine pubblico si è ulteriormente aggravata. Sul sostrato precedente di un generale dissesto della compagine sociale, dovuto al tacito accordo tra criminalità organizzata e politici locali, sono insorte nuove tensioni. Esse sono provocate sia dai tentativi di assumere il controllo del flusso massiccio dei finanziamenti pubblici, stanziati dallo Stato per la ricostruzione dei territori colpiti dal terremoto, che dalla crescente disoccupazione, soprattutto tra i giovani. Se si considerano su questo sfondo le possibilità di rapidi arricchimenti offerte dal traffico di droga, diventato una delle principali fonti di reddito per questa come per le altre più importanti organizzazioni criminali, non fa meraviglia che i gruppi camorristici, viste le sempre crescenti quantità di denaro in gioco, siano ricorsi con sempre maggior frequenza e spietatezza a mezzi violenti.

Analoghe considerazioni valgono per la ‘ndrangheta, l’organizzazione che domina un’altra regione dell’Italia meridionale, la Calabria, che è segnata da un sottosviluppo sociale ed economico ancora più pesante di quello campano. Come la camorra, anche la ‘ndrangheta ha una struttura organizzativa orizzontale, composta da più gruppi (detti cosche o ‘ndrine), i cui membri, a differenza della camorra, vengono reclutati in base a legami familiari. Ne consegue che spesso si sviluppano faide sanguinose in base a rivalità ed inimicizie tra generazioni e tra diverse famiglie, e non per motivi legati alle attività illecite. La ‘ndrangheta si è specializzata nei rapimenti a scopo di estorsione. Questi vengono attuati soprattutto al di fuori del suo territorio di insediamento (cioè al di fuori della Calabria), in particolare nell’Italia settentrionale e centrale. Qui evidentemente i rapitori sanno ormai come muoversi, e sono in grado di procacciarsi i mezzi materiali e logistici necessari a tenere prigioniere le loro vittime anche per lunghi periodi. Qui essi possono servirsi anche di canali più sicuri per il riciclaggio del denaro sporco provenienti dai sequestri. La ‘ndrangheta, tuttavia, è caratterizzata da modelli di comportamento relativamente arcaici, senza però per questo essere meno pericolosa delle altre forme di criminalità organizzata, con cui condivide le caratteristiche essenziali, come il controllo del territorio, l’influenza sugli organi  amministrativi locali, l’estorsione di denaro a danno delle imprese e l’organizzazione del traffico di droga. La mafia in senso proprio ha la propria origine in Sicilia, dove esistono sia una organizzazione unitaria strutturata verticalmente, denominata Cosa nostra, sia una serie di organizzazioni mafiose, operanti esclusivamente a livello locale, che non appartengono a Cosa nostra e anzi spesso agiscono in concorrenza con essa. Nella provincia di Palermo, che è il più antico territorio di insediamento della mafia, il predominio di Cosa nostra è assoluto, nel senso che non vi è spazio per l’azione di altre organizzazioni mafiose autonome. La mafia ha sicuramente delle caratteristiche che la rendono più pericolosa di altre forme di criminalità organizzata. Non tanto per l’elevato numero dei suoi membri - qualche migliaio - quanto per la sua struttura e la sua capacità di attuare strategie unitarie, nonostante la complessa articolazione della sua organizzazione. Proprio per queste sue qualità essa è l’unica organizzazione criminale italiana che può diventare un modello su scala internazionale. Già da qualche decennio le famiglie mafiose appartenenti a Cosa nostra si sono impiantate in grande segretezza in tutta la Sicilia e anche in altre parti d’Italia, come a Napoli, Roma, Milano e Torino. “Succursali” di Cosa nostra sono state aperte anche in alcuni Paesi europei che erano diventati meta delle massicce correnti migratorie dalla Sicilia. Anche negli Stati Uniti e in Canada ha preso piede una organizzazione mafiosa, originariamente una sorta di filiale della siciliana Cosa nostra, che però nel frattempo si è resa indipendente e si è separata da essa.
Cosa nostra è certamente l’organizzazione più pericolosa nello spettro della criminalità organizzata italiana, poiché per le altre organizzazioni criminali la mentalità mafiosa, comune a tutte le associazioni criminali italiane, non rappresenta che una sorta di spirito di fratellanza. All’interno della criminalità organizzata siciliana, invece, questa mentalità si è addirittura sviluppata in un’alleanza federativa, che già da molto tempo ha prodotto un’organizzazione unitaria.
Essa si presenta come uno Stato nello Stato e viene governata con leggi ferree, imposte con la violenza ai suoi membri. L’unitarietà non esclude una relativa indipendenza delle singole “famiglie” per quel che concerne le questioni locali, e nemmeno la possibilità di discrepanze e scontri sanguinosi all’interno di Cosa nostra. Ma a parte le questioni di interesse locale, in cui l’organizzazione complessiva interviene solo per dettare le regole di comportamento e per imporle con brutale determinazione, l’unitarietà di Cosa nostra determina soprattutto la strategia da adottare sulle questioni che riguardano il complesso dell’organizzazione. Questo dato di fatto, emerso da numerose inchieste giudiziarie, spesso non è stato recepito dagli esperti, i quali ritenevano che la mafia fosse una sequenza di singole bande criminali, in permanente lotta tra di loro, che si sarebbero inevitabilmente sciolte in conseguenza del miglioramento delle condizioni sociali ed economiche nell’Italia meridionale. La perdurante, anzi accresciuta vitalità della mafia e i connessi tragici avvenimenti degli ultimi anni dimostrano quanto questa concezione sia errata e irrealistica.
Per comprendere i motivi che hanno portato all’attuale struttura unitaria e alla pericolosità di Cosa nostra è necessario analizzare con maggiore precisione la subcultura che sta alla base di questa organizzazione, che è assai più radicata e ricca di quella di altre associazioni criminali. Una subcultura che si manifesta nella rigida selezione dei suoi membri, come anche nella ferrea capacità di imporsi regole di spietata efficienza, regole che vengono rispettate assolutamente e senza eccezioni. La scelta dei membri dell’organizzazione viene fatta con particolare cura. Solo i criminali dalle comprovate capacità hanno una possibilità di venire accolti, e precisamente dopo un’osservazione attenta, occulta o anche diretta, allo scopo di verificare se il candidato possieda quelle qualità che sono ritenute indispensabili: spietatezza e omertà. La cosiddetta omertà è una qualità indispensabile per un mafioso. Il rispetto della legge del silenzio viene richiesto in una forma tanto estrema che quegli “uomini d’onore” i quali in condizioni particolari, come ad esempio durante una lunga detenzione, mostrassero il minimo segno di deviazione dal rigido atteggiamento di omertà assoluta, correrebbero il pericolo di venire giustiziati. Negli ultimi anni inoltre, di fronte a casi in cui mafiosi eccellenti hanno deciso di collaborare con la giustizia, da parte di Cosa nostra sono state prese contromisure, allo scopo di ridurre al minimo la diffusione di informazioni sulla mafia all’interno dell’organizzazione. Mentre, ad esempio, nel passato era consentito ai membri di una “famiglia” di conoscere l’identità degli altri membri, questo oggi non è più consentito, cosicché le informazioni relative alla composizione e al numero dei componenti delle singole “famiglie” sono riservate solo ai gradi supremi. Allo stesso tempo si è affermata la prassi di impiegare per i crimini più semplici e allo stesso tempo più rischiosi i delinquenti comuni più capaci e decisi, i quali non hanno alcuna possibilità di conoscere i segreti dell’organizzazione. In questo modo l’atteggiamento di Cosa nostra nei confronti dei delinquenti comuni è cambiato. Mentre prima essi erano appena tollerati a condizione che non disturbassero l’ordine nelle zone dominate dall’organizzazione, oggi essi sono bene accettati e vengono utilizzati per i fini dell’organizzazione.
Da sempre la mafia si è inserita in attività lucrative illecite che consentono un profitto regolare e costante. Le è spesso riuscito di raggiungere una posizione di monopolio, anche con l’aiuto di alleati che essa ha prima utilizzato per poi farli cadere quando non ne ha avuto più bisogno. Ne sono un esempio le vicende legate al traffico illegale di tabacchi esteri in Italia. Quando agli inizi degli anni Settanta questa attività illecita divenne particolarmente lucrativa, la mafia siciliana utilizzò una “famiglia” della sua organizzazione, insediata a Napoli, per infiltrarsi nella camorra ed acuire i contrasti tra i suoi vari gruppi, finché le riuscì, dopo aver vinto la concorrenza dei marsigliesi di controllare totalmente il contrabbando di sigarette. Lo stesso metodo venne utilizzato nelle grandi città dell’Italia del nord, in cui la mafia ha gradualmente preso piede in seguito all’immigrazione di massa di meridionali in cerca di lavoro. Queste città sono un comodo e tranquillo rifugio per molti mafiosi ricercati.

L’insediamento di Cosa nostra   nelle città dell’Italia settentrionale non solo ha allargato la zona di influenza della mafia su un territorio che tradizionalmente era immune da questo fenomeno, ma ha anche creato, in seguito agli intrecci e alle alleanze con membri della malavita locale, una situazione che mette in pericolo la sicurezza pubblica in tutta Italia. Inoltre i guadagni assai cospicui derivati dalle attività illecite, in particolare dal commercio degli stupefacenti, devono venire investiti o quanto meno “ripuliti”. Questa necessità ha condotto a contatti sempre più frequenti tra Cosa nostra e il mondo della finanza o il mercato legale in generale - contatti che hanno contaminato e stravolto interi settori dell’economia. Questo breve excursus sulle caratteristiche dell’organizzazione e sui suoi metodi spiega i motivi per cui Cosa nostra ha acquisito un rilievo internazionale e deve quindi ricevere un’attenzione adeguata. L’apertura delle frontiere all’interno della Comunità europea favorirà necessariamente l’espansione della mafia e della criminalità organizzata con sistemi mafiosi. Questo tipo di criminalità difficilmente può essere contenuta con efficacia da confini nazionali o da altre barriere. Tuttavia, è da presumere che una Cosa nostra a livello europeo non sarà identica a quella di adesso, perché oltretutto dovrà operare in condizioni diverse da quelle assai specifiche che hanno modellato alcuni suoi aspetti e comportamenti. Sembra anche improbabile che la diffusa cultura del silenzio, che in Italia meridionale è uno dei segni più evidenti del dominio di un territorio da parte di organizzazioni criminali di tipo mafioso, possa riprodursi in Paesi con tradizioni e usanze diverse. Non è neanche pensabile che lontano dai luoghi di origine della mafia e di fenomeni analoghi, si possano riprodurre quelle lotte tra fazioni nemiche che attualmente fanno scorrere il sangue in molte zone del Meridione italiano. Questo è già successo; tuttavia il terreno dello scontro rimane limitato soprattutto alle zone di insediamento delle diverse organizzazioni. Sarebbe, inoltre, irrealistica l’ipotesi che possano riprodursi all’estero quegli intrecci tra mafia e organi del potere politico locale che in Italia, nelle zone interessate dal fenomeno mafioso, portano alla manipolazione degli elettori da parte della criminalità organizzata. Poiché, tuttavia, è tipico della mafia infiltrarsi subdolamente nelle istituzioni, non mi meraviglierebbe se - una volta rafforzatasi all’estero la mafia - i casi di corruzione di funzionari aumentassero, come è già emerso da alcune indagini giudiziarie. Non si può invece escludere che in futuro, anche all’estero, possano essere compiuti rapimenti a scopo di estorsione da parte della mafia e di organizzazioni similari, con il sostegno di appartenenti alla malavita locale. La pianificazione e l’esecuzione di simili imprese sarebbe certo difficoltosa, ma le associazioni criminali italiane che commettono questo tipo di crimini hanno dimostrato di disporre di mezzi logistici e di capacità che consentono loro di attuare le più difficili imprese criminali. Il principale campo di attività in cui la mafia e le organizzazioni analoghe si scontreranno con le associazioni criminali di altri Paesi è quello del traffico della droga, anche se altre attività illegali, che per loro natura si svolgono su base internazionale (come il traffico illegale di armi e la ricettazione), sono destinate a diventare oggetto di lotte accanite. Da ciò che sappiamo in base ai procedimenti istruttori si desume che fino ad ora non sono sorti conflitti di rilievo tra organizzazioni criminali internazionali, perché queste hanno stipulato una sorta di patto di non aggressione con cui si sono divise le zone di influenza. Ciò corrisponde anche ad una consolidata strategia della mafia, che si sforza di evitare conflitti dall’esito incerto e preferisce infiltrarsi nel territorio dell’avversario, per suscitare divisioni e contrasti allo scopo di indebolire il nemico. D’altro canto non è certo che la coesistenza pacifica tra le organizzazioni criminali si mantenga a lungo termine. Gli sviluppi rilevabili nell’ambito del mercato illegale degli stupefacenti in direzione di un sempre più frequente intreccio tra commercio di eroina e di cocaina fa pensare che si prepari una fase di conflitti e di lotte tra le varie organizzazioni per il mantenimento degli originari territori di competenza.
Gli sviluppi rilevabili nell’ambito del mercato illegale degli stupefacenti in direzione di un sempre più frequente intreccio tra commercio di eroina zione di un sempre più frequente intreccio tra commercio di eroina e di cocaina fa pensare che si prepari una fase di conflitti e di lotte tra le varie organizzazioni per il mantenimento degli originari territori di competenza. In questo contesto la possibilità che, in seguito all’incremento dei contatti internazionali, l’esempio della mafia possa diventare un modello per altre organizzazioni criminali sembra tutt’altro che irrealistica. Semplicemente deve essere formulata in modo corretto. E’ opinione diffusa che il modello criminale della mafia sia connotato da caratteristiche condizionate dall’ambiente e non possa essere trapiantato in situazioni sociali differenti. Questa opinione è giusta, ma non sufficiente, perché bisogna ancora chiedersi se la criminalità mafiosa, una volta depurata da quegli aspetti che sono troppo specifici per poter essere riprodotti altrove, possa prendere piede al di fuori dell’Italia. Se si formula il problema in questo modo si capisce subito che si tratta di un problema apparente, perché, nello spettro della criminalità internazionale, le organizzazioni più importanti - anch’esse depurate dei loro caratteri specifici - presentano dei caratteri che sono analoghi  a quelli della mafia. Organizzazioni come le triadi cinesi, la cosiddetta mafia turca e la yakuza giapponese presentano tutte una flessibilità che consente loro il passaggio in brevissimo tempo a qualsiasi altro tipo di attività illecita. Per raggiungere i loro scopi tutte queste organizzazioni dispongono di considerevoli mezzi finanziari, ricorrono all’uso della violenza e tentano con tutti i mezzi di assicurarsi l’inerzia della polizia e dell’autorità giudiziaria. Per quel che riguarda il primo punto, si consideri che il motivo principale per cui la mafia siciliana è entrata nel grande affare internazionale della droga solo alla fine degli anni Settanta è che fino a quel momento essa non disponeva di sufficienti mezzi finanziari, finché poi non li ha attinti da altre attività illecite, in particolare dal traffico illegale delle sigarette e da rapimenti a scopo di estorsione. Un altro aspetto dimostra l’esistenza di caratteri comuni alle principali associazioni criminali che operano su scala internazionale. Si tratta della rete di distribuzione, che alcuni esperti chiamano “rete illegale”. Questa rete è molto importante per poter svolgere i propri affari nell’ambiente del sistema illegale. Le reti di distribuzione vengono messe in opera utilizzando tra l’altro i canali dell’emigrazione. Anche questa non è esclusiva tipica della criminalità mafiosa, se si pensa ad esempio al rapporto tra i cinesi all’estero e le triadi cinesi, o al legame tra i “lupi grigi” e le minoranze turche all’estero, da un lato, e, dall’altro invece, alle difficoltà che la yakuza giapponese o il cartello di Medellìn incontrano nel tentativo di allargare i loro affari illeciti, proprio perché, diversamente da quelle organizzazioni criminali, esse non possono contare su di una forte presenza di connazionali all’estero. Possiamo dunque affermare che la mafia, definita nei termini sopraddetti, già da molto tempo funge da modello per la criminalità organizzata. Ne consegue che questa sostanziale unitarietà del modello organizzativo consente di utilizzare il termine mafia in senso ampio per tutte le più importanti organizzazioni criminali. Non è facile prevedere le tendenze del futuro sviluppo di questi fenomeni criminali. Si riconoscono, da un lato, una serie di tentativi di stringere alleanze e addirittura strutture federative, sia a livello nazionale che internazionale, allo scopo di poter condurre con più agio affari di considerevole dimensione finanziaria. D’altro canto, si è anche osservato - forse anche a causa degli aspetti arcaici dell’organizzazione e dei cosiddetti valori delle strutture criminali di base - che questi tentativi spesso sono falliti, con la conseguenza che si sono riformate strutture organizzative separate e fortemente delimitate tra di loro. Si deve sottolineare il fatto che un impegno più incisivo delle forze di polizia nella lotta alla criminalità e il graduale scomparire della disponibilità della popolazione a tollerare tali fenomeni - come in parte già si può vedere - possono dare un importante contributo all’indebolimento del potenziale di cui queste organizzazioni dispongono. Mi sembra tuttavia certo che la via decisiva che deve essere intrapresa consista nella distruzione del potere finanziario della criminalità organizzata, il che presuppone a sua volta una collaborazione internazionale energica ed efficace. Gli strumenti già a disposizione per la lotta diretta alle imprese della criminalità organizzata sono necessari e devono essere affinati e moltiplicati. Ma al di là delle singole misure di tipo tradizionale vi è l’esigenza di promuovere e coordinare gli sforzi che tendono a identificare e confiscare i beni di provenienza illecita. Persiste dunque la necessità di un corrispondente adeguamento della legislazione internazionale e della realizzazione di una costante ed efficace collaborazione internazionale. Ciò significa soprattutto l’abolizione dei cosiddetti paradisi fiscali, che fino ad oggi hanno reso vani i tentativi, anche i più decisi, di alcuni Paesi per identificare i flussi di denaro provenienti da attività illecite. Questa è una lotta in cui si devono sentire impegnati tutti i componenti della comunità internazionale, perché dall’esito di questa lotta dipende se la criminalità organizzata potrà essere distrutta o almeno ridimensionata entro limiti in cui non rappresenti più una seria minaccia per la società.     

Articolo pubblicato nel N°1 Aprile 2000

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