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Dalle parole dell'avvocato Trizzino alle presunte verità dei funzionari di polizia

Nelle ultime settimane la grande stampa è tornata ad occuparsi della strage di via d'Amelio. Non poteva essere diversamente viste le roboanti rivelazioni di testimoni a scoppio ritardato, inerenti l'agenda rossa e le ricostruzioni sul tragitto che fece la borsa di Borsellino in quel disgraziato 19 luglio 1992.
Prima c'era stata la notizia delle perquisizioni, da parte della Dia, delle abitazioni della moglie e della figlia dell'ex capo della Squadra Mobile Arnaldo La Barbera (deceduto) dopo che un testimone, vicino alla famiglia, aveva dichiarato ai pm di Caltanissetta che proprio i familiari potevano essere in possesso dell’agenda di Borsellino.
Poi c'è stata la testimonianza di Salvatore Pilato, all'epoca della strage magistrato di turno della Procura di Palermo e ora Presidente della sezione di controllo per la Regione siciliana della Corte dei Conti, sulla possibile presenza dell'agenda rossa addirittura nell'ufficio di Borsellino a Palermo.
Quindi la notizia sui giornali per cui un funzionario di polizia, sentito qualche anno fa dalla Procura di Caltanissetta, avrebbe dichiarato di aver ricevuto la borsa di Borsellino dal capitano dei carabinieri Giovanni Arcangioli (il militare fotografato in via d'Amelio con in mano la valigetta) per poi portarla in Questura (un passaggio di consegne di cui per oltre trent'anni mai nessuno ha parlato).
Nei giorni scorsi la conferma all'udienza del processo d'appello sul depistaggio di via d'Amelio, che vede imputati i poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo (in primo grado i primi due, con la caduta dell'aggravante mafiosa, sono stati prescritti mentre il terzo è stato assolto “perché il fatto non costituisce reato”.
Il pm Maurizio Bonaccorso ha parlato di nove verbali resi da cinque poliziotti, due dei quali confermano di aver visto la borsa di Borsellino nella stanza dell’ufficio di La Barbera, e darebbero “un contributo” sulla ricostruzione del passaggio di borsa dalle mani di Arcangioli a quelle del funzionario di polizia. Si tratta dell’ex questore Andrea Grassi, finito sotto processo sul sistema Montante, ma assolto in appello, Gabriella Tomasello, Armando Infantino, Giuseppe Lo Presti e Nicolò Giuseppe Manzella.
Secondo quanto riportato da “La Repubblica” il 19 luglio 1992 sarebbe stato Lo Presti a fermare il capitano Arcangioli. Dopo avergli detto che l'indagine era di competenza della polizia si fece consegnare la borsa per poi passarla al collega Armando Infantino (il quale avrebbe confermato il fatto).
Infantino avrebbe poi dato la borsa all’ispettore Francesco Paolo Maggi, che poi portò la borsa nella stanza del capo della squadra mobile Arnaldo La Barbera.
Gli altri due funzionari, Grassi e Tomasello, avrebbero riferito di aver visto la borsa di Borsellino nell'ufficio di La Barbera.
Ed oggi vengono resi noti anche i verbali dei poliziotti: depositati agli atti del processo d’Appello sul depistaggio.
“Mentre mi trovavo in via D’Amelio un mio superiore, di cui non saprei dare indicazioni, mi consegnò una borsa di pelle che presentava delle bruciature, dicendomi di andare a posarla all’interno dell’auto, parcheggiata all’inizio di via D’Amelio. Ricordo che fuori dall’auto vi era il collega Maggi”, ha riferito Infantino il 12 marzo 2019. Infantino, a cui è stata mostrata una foto di Arcangioli, non ha riconosciuto il militare spiegando solo di “averlo visto in tv”.
Quattro anni dopo Infantino fornisce ulteriori, dettagli: “Per quanto concerne la circostanza da me già riferita inerente il carabiniere con la placca che si avvicinava al capannello di noi personale di polizia portando la borsa di Borsellino in mano e che vidi e sentii interloquire con Lo Presti, confermo che quest’ultimo mi fece consegnare dal militare la borsa per poggiarla dentro la macchina di Maggi”.


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Salvatore Riina © Shobha


Un altro poliziotto, Manzella, racconta del passaggio di consegne e, diversamente dal collega, riconosce Arcangioli nelle foto.
Lo Presti, protagonista assoluto della vicenda, non dice molto. Nel 2019 non ha ricordo del passaggio della borsa, nonostante Infantino (di cui non smentisce il racconto) gliel’avesse ricordato già due anni prima. Ed anche lui afferma di non aver mai conosciuto Arcangioli.
Secondo quanto riportato da Il Fatto Quotidiano, pochi giorni fa Lo Presti è tornato dai pm di Caltanissetta, raccontando una dinamica dei fatti nuova: Lo Presti sostiene che fu lui il primo a trovare il corpo di Borsellino e “vicino vi era la sua borsa. Ricordo che dissi ad Infantino di custodirla”. Quando i pm gli fanno notare la discrasia con il racconto del collega ancora una volta torna sui suoi passi affermando di non escludere che le cose siano andate come ha detto Infantino.
Inoltre, su quella giornata, si è detto certo di aver fatto una relazione di servizio che allo stato non è mai stata trovata.
Insomma, sembra che finalmente le indagini stiano prendendo una direzione decisiva.
Tutto bene? Assolutamente no. Il nostro primo appunto riguarda proprio la “squadra di calcio” della Polizia che ad oltre trent'anni dai fatti si “sveglia dal sonno” e racconta fatti che si sarebbero dovuti riferire, come abbiamo ricordato in un precedente editoriale non solo dal 1992, ma anche quando Arcangioli venne indagato e poi prosciolto dall'accusa del furto dell'agenda rossa.
Il silenzio sui fatti che riguardano quel documento, che indubbiamente rappresenta la “scatola nera” della strage di via d'Amelio, comunque la si guardi è quantomeno vergognoso.
C'è poi un altro dato macroscopico che non possiamo far a meno di offrire ai nostri lettori.
L'ispettore Francesco Paolo Maggi redasse una relazione di servizio il 21 dicembre 1992 (anomalo che ciò avvenne a tanti mesi di distanza dalla strage). In essa si legge: "I vigili del Fuoco, prontamente intervenuti, procedevano all'opera di spegnimento dei mezzi mentre il dottor. Fassari si preoccupava a dirigere le operazioni di soccorso, lo scrivente, si avvicinava all'auto del magistrato dove un Vigile del Fuoco stava spegnendo detta auto e lo stesso dal sedile posteriore del mezzo in questione prelevava una borsa in pelle di colore marrone, parzialmente bruciata, il quale dopo averli gettato dell'acqua per spegnerla, la consegnava al sottoscritto. Immediatamente informava il dr. Fassari della presenza della suddetta borsa, il quale riferiva di trasportarla presso l'ufficio del Dirigente di questa Sq.Mobile, senza peraltro sia lo scrivente che il funzionario accertarsi che cosa conteneva detta borsa che come detto sopra si presentava parzialmente bruciata da un lato e chiusa".
Nessun riferimento viene fatto su un funzionario di polizia da cui avrebbe avuto la borsa. Inoltre si deve evidenziare il dato per cui la borsa, secondo la relazione, presentava delle bruciature. Diversamente la borsa che Arcangioli teneva in mano appariva integra. E queste sono solo alcune degli interrogativi che ci poniamo, ovviamente senza sapere il contenuto dei verbali degli altri poliziotti in quanto l'indagine, che giustamente la procura nissena sta conducendo di fronte alle molteplici notizie di reato, resta top secret.
Cosa sta accadendo? Come mai oggi c'è questa sovrabbondanza di informazioni, anche contrastanti tra loro? Nulla torna e poco ci manca che qualcuno inizi a dire che l'agenda rossa è nascosta nella casa di Babbo Natale. Mettendo da parte l'ironia restano le domande: siamo di fronte a nuovi depistaggi? Se sì, perché?


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Matteo Messina Denaro


Nuove cortine fumogene
Il rischio di nuove cortine fumogene sulla strage di via d'Amelio si evince anche da altre azioni che vengono poste in essere ormai da qualche mese. Da qualche tempo la Commissione parlamentare antimafia sta dedicando una serie di audizioni per scandagliare una pista processuale della strage di via d'Amelio ovvero l'interesse di Paolo Borsellino per l'inchiesta “Mafia-appalti”.
Un'operazione di “parcellizzazione ed atomizzazione” che, come avevano denunciato a Siena il sostituto procuratore nazionale antimafia Nino Di Matteo ed il giornalista  Saverio Lodato (autori del libro, “Il patto sporco e il silenzio”) rischia di “allontanare dalla verità”.
Questa strada che viene spinta con forza da quegli ufficiali del Ros imputati e poi assolti in Cassazione “per non aver commesso il fatto” nel processo sulla trattativa Stato-mafia.
Una linea che, amaramente, viene percorsa dai figli di Borsellino, tramite l'avvocato Fabio Trizzino (anche genero del giudice).
In questi giorni proprio Trizzino è intervenuto a più riprese sulla stampa e sulla Rai, nella trasmissione “Far West”, condotta da Salvo Sottile, con la sua solita “litania”, che in altre occasioni abbiamo definito "depistante" perché svia l'attenzione sui veri motivi che hanno portato all'accelerazione della strage di via d'Amelio e quindi alla morte di Paolo Borsellino.
L'inchiesta mafia-appalti, seppur di interesse, non è certamente decisiva per spiegare ciò che avvenne nel 1992.
Il filo che lega la Calcestruzzi Spa, il gruppo Ferruzzi-Gardini e la mafia può dare una spiegazione, forse, assieme a ciò che stava emergendo nell'inchiesta Mani-Pulite, sul perché Raul Gardini, trent'anni fa, decise di togliersi la vita. E' noto che avrebbe dovuto essere interrogato da Antonio Di Pietro sulle tangenti ai politici per favorire Enimont, la joint venture tra Montedison ed Eni, ma ciò non basta a segnare un punto di non ritorno come invece si può considerare un ulteriore scandalo su rapporti e affari con soggetti in odor di mafia come i fratelli Buscemi.
L'idea generale è quella di porre sotto accusa i magistrati della Procura di Palermo che archiviarono alcuni filoni investigativi. Nella narrazione, però, vengono continuamente (volutamente?) taciuti alcuni punti chiave.


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Giovanni Falcone © Archivio Letizia Battaglia


Mafia appalti non c'entra
Si fa continuamente credere che le indagini su mafia-appalti siano state archiviate in maniera definitiva il 13 luglio 1992.
Un'affermazione non corrispondente al vero. L'ex Pg di Palermo, Roberto Scarpinato, ha più volte evidenziato come, dopo l’arresto di sette soggetti indagati tra i quali Angelo Siino, il 13 luglio 1992 era stata richiesta solo l’archiviazione della posizione di alcuni indagati perché a quella data non erano ancora state acquisite prove sufficienti nei loro confronti. Diversamente era stato fatto lo stralcio della parte più importante della inchiesta che proseguiva e riguardava la gestione di appalti della SIRAP per mille miliardi delle vecchie lire, e che coinvolgeva il livello politico e amministrativo.
Viene sempre taciuto che nella prima informativa, depositata dal Ros alla Procura di Palermo il 20 febbraio 1991, a differenza della seconda depositata il 5 settembre 1992, non conteneva nomi di importanti politici come Calogero Mannino, Salvo Lima e Rosario Nicolosi.
Si fa riferimento all'incontro che Borsellino ebbe con De Donno e Mori alla Caserma Carini il 25 giugno 1992 basandosi esclusivamente sulle parole degli ufficiali del Ros, che dissero che si parlò dell'inchiesta mafia-appalti.
Eppure il contenuto di questo incontro, oggi ritenuto decisivo, per anni è stato taciuto dagli stessi carabinieri.
Possibile che l'oggetto di quell'incontro riguardasse altro?
Pochi ricordano che il tenente Carmelo Canale, ex braccio destro del giudice Borsellino, riferì che quell'incontro sarebbe stato voluto da Borsellino per discutere di altro.
Sentito nel processo Borsellino quater, disse che nelle ultime settimane di vita Paolo Borsellino stava cercando di fare luce sull'anonimo, conosciuto come 'Corvo 2', in cui si accennava a una sorta di trattativa che l’ex ministro Calogero Mannino avrebbe avviato con il boss Totò Riina.
Canale raccontò anche che Borsellino chiese di incontrare proprio il 25 giugno del 1992, Giuseppe De Donno, ufficiale del Ros dei carabinieri, perché un collega gli aveva detto che era lui l’autore dell’anonimo in cui si parlava anche di incontri (mai accertati) tra Mannino e Riina avvenuti nella sacrestia di una chiesa.
Al centro delle accuse dei vari Mori, De Donno, Trizzino e compagnia viene posta la Procura di Palermo (utilizzando l'espressione del “nido di vipere” detta dallo stesso Borsellino ai magistrati Russo e Camassa).
E' certo che il Procuratore capo Pietro Giammanco è uno dei massimi responsabili dell'ostracismo e dell'isolamento subito da Giovanni Falcone (prima) e Paolo Borsellino (poi) nel corso degli anni.
Proprio quel modus operandi venne fortemente contestato in una lettera firmata da otto componenti della DDA di Palermo (Ignazio De Francisci, Giovanni Ilarda, Antonio Ingroia, Alfredo Morvillo, Antonio Napoli, Teresa Principato, Roberto Scarpinato e Vittorio Teresi) in cui si diceva, in sostanza, che il Procuratore capo Giammanco non poteva restare alla procura della Repubblica. E gli stessi firmatari si esposero con il Csm a tal punto di minacciare le proprie dimissioni.
Eppure basterebbe questa prova regina per capire chi era veramente vicino a Paolo Borsellino in quel momento storico.


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Paolo Borsellino © Imagoeconomica



Post trattativa
Da quando è stata pubblicata la motivazione della sentenza della Cassazione sul processo trattativa Stato-mafia è in corso una campagna di delegittimazione e demolizione del lavoro di tutti quei magistrati che hanno avuto l'ardire di alzare il livello delle indagini, alla ricerca dei mandanti esterni delle stragi del 1992-1993 per capire quale fosse il disegno che si cela dietro quel terribile biennio di bombe e sangue. Un disegno che non fu opera della sola mafia.
Alcuni lo negano spudoratamente. Altri giocano comunque a ribasso solcando sempre il fronte mafia-appalti (indicando i nomi di Salvatore Buscemi, Nino Buscemi, e Giuseppe Lipari) abusando delle dichiarazioni di Siino o di Brusca, dimenticando che proprio Brusca ha parlato del papello e dei soggetti “che si erano fatti sotto” tra le due stragi di via d'Amelio.
Quelli non erano neanche i nomi a cui si riferì un altro membro della cupola, Totò Cancemi (deceduto). In più processi aveva affermato che “Riina è stato preso per la manina per fare le stragi”. E ancora: “Mi fece i nomi di Berlusconi e Dell’Utri”.
Proprio quei Berlusconi e Dell'Utri di cui Borsellino parlerà appena due giorni prima la strage di Capaci, nell'intervista rilasciata ai giornalisti Fabrizio Calvi e Jean-Pierre Moscardo di Canal Plus (morto nel 2010), mai trasmessa su quel canale ma poi svelata da L’Espresso nel 1994, ed andata in onda parzialmente sulla Rai nel 2000.
Lo ricordiamo ancora una volta. In quella video intervista i due giornalisti francesi stavano conducendo un'inchiesta sui rapporti fra Cosa nostra e la politica italiana, i collegamenti presunti all’epoca e poi dimostrati (con una sentenza di condanna per concorso esterno in associazione mafiosa) fra la mafia palermitana e Marcello Dell’Utri, fondatore di Publitalia e successivamente del partito Forza Italia, e braccio destro di Silvio Berlusconi.
Paolo Borsellino con scrupolo ed equilibrio rispose alle domande a lui rivolte parlando di traffico di droga, di Mangano, della famiglia mafiosa di Porta nuova sempre evidenziando che di quei fascicoli non si stava occupando direttamente ma che da altri dibattimenti emergevano alcuni elementi.


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Marcello Dell'Utri © Imagoeconomica


L'appunto di Falcone su B.
Tempo fa fu ritrovato un appunto, redatto proprio da Falcone, in cui si legge: “Cinà in buoni rapporti con Berlusconi. Berlusconi dà 20 milioni ai Grado e anche a Vittorio Mangano”.
Maurizio Ortolan, ispettore in pensione della polizia, agente di scorta del pentito Mannoia, testimone oculare degli interrogatori che Giovanni Falcone tenne con il collaboratore di giustizia, ha raccontato che quelle parole furono dette già nel 1989.
E salta all'occhio come quei nomi contenuti nell'appunto non siano affatto di poco conto. Grado è uno dei boss palermitani che frequentava Milano negli anni Settanta. Gaetano Cinà è il boss mafioso molto amico di Dell'Utri, considerato il “tramite, l'intermediario di alto livello fra l'organizzazione mafiosa e gli ambienti imprenditoriali del Nord”. Vittorio Mangano è il mafioso assunto da Berlusconi come stalliere nella sua villa di Arcore.
E' facile pensare che Paolo Borsellino fosse al corrente delle stesse cose che conosceva Giovanni Falcone.
Sapeva dei vecchi affari di Cosa nostra che aveva impiantato una base al Nord, a Milano, negli anni Settanta. E quelle “storie” erano tutt'altro che vecchie o prive di fondamento. E lo dimostra proprio con quell'intervista ai due giornalisti francesi.
Si potrebbe anche supporre che Borsellino avrebbe messo quantomeno sotto osservazione, se non addirittura indagato, quegli stessi soggetti che negli anni successivi diventarono protagonisti assoluti della politica e della storia del Paese con la discesa in campo di Forza Italia.
Se Borsellino aveva intuito tutto ciò è ovvio che era divenuto un ostacolo.
Per fermarlo serviva un'azione eclatante. Poco importava se ciò avveniva a soli 57 giorni dalla strage di Capaci.


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Silvio Berlusconi © Imagoeconomica


L'ombra dei servizi
Le stragi di Stato di Capaci e via d'Amelio nascondono inquietanti verità e in entrambi i luoghi dei crateri non mancano le tracce di soggetti esterni a Cosa nostra.
Gaspare Spatuzza ha raccontato dell'uomo sconosciuto presente al momento dell'imbottitura dell'esplosivo.
Ci sono le intercettazioni tra il collaboratore Mario Santo Di Matteo e la moglie in cui si parla di “infiltrati della polizia” in seno alla strage.
Quella Polizia che viene tirata in ballo pesantemente nel depistaggio di via d'Amelio, come dimostrato ormai da una sentenza definitiva come il Borsellino quater, e che vede in Arnaldo La Barbera il suo più alto riferimento. L'ex capo della Mobile, che poi si scoprì essere stato anche a libro paga del Sisde, probabilmente ha avuto a che fare anche con l'agenda rossa.
Ma l'ombra dei servizi si respira anche oltre queste figure.
Si può partire dall'anomala richiesta del Procuratore capo di Caltanissetta Tinebra fatta a Bruno Contrada affinché il Sisde indagasse sull'attentato di via d'Amelio?
Un'attività che nelle motivazioni della sentenza Borsellino quater viene definita dai giudici della Corte d'Assise come "decisamente irrituale" in quanto non permessa dalla normativa vigente all'epoca, che viene analizzata anche nell'ultima sentenza.
Tutto ciò avveniva mentre a Palermo già era stata avviata l'attività investigativa nei confronti di Contrada dopo che Gaspare Mutolo aveva fatto il suo nome ai magistrati, tanto che fu poi arrestato nel dicembre 1992.


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Nino Di Matteo



Questione Di Legami-Sinico
Nel corso degli anni venne anche scandagliata l'ipotesi che Contrada potesse essere presente in via d’Amelio il giorno della strage. Indagini che si sviluppavano sulla base delle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia (Elmo), ma anche di alcuni ufficiali dei carabinieri e della polizia.
A ricostruire la vicenda nella sua testimonianza al processo sul depistaggio di via d'Amelio fu proprio il pm Nino Di Matteo.
“Fu aperta una indagine molto spinta sui Servizi Segreti - aveva ricostruito il magistrato - Fui io a riaprire le indagini su di lui sulla base delle dichiarazioni del pentito Elmo che ci aveva detto di averlo visto allontanarsi dal teatro dell’attentato con una borsa, o dei documenti in mano. A quel punto lessi tutto il vecchio fascicolo, acquisii le sue agende”.
“Vedendo quegli atti mi accorsi che c’era stato un ufficiale del Ros, Sinico, che era andato in procura a Palermo e aveva riferito ad alcuni magistrati di aver saputo che la prima volante accorsa dopo l’esplosione aveva constatato la presenza di Contrada. E raccontava anche di una relazione di servizio che attestava la presenza di Contrada in via d’Amelio e che poi sarebbe stata strappata in Questura - spiegò ancora -. Quel che mi fece trasalire è che quando fu sentito dalla collega Boccassini, nel 1992, mise a verbale quella circostanza dicendo di averlo saputo da un suo amico carissimo, non un confidente, di cui voleva tutelare l’identità. Andai a interrogarlo e ribadì le medesime parole. Quando io stavo per chiedere il rinvio a giudizio del carabiniere lui venne in Procura e depositò una memoria della quale avrebbe parlato con il colonnello Mori, facendo il nome della sua fonte: il funzionario di polizia Roberto Di Legami. Ricordo anche il momento dei confronti che fu drammatico. Di Legami negò tutto, fu anche rinviato a giudizio perché avevamo due militari contro uno (Sinico e Raffaele Del Sole, ndr). Dell’esito di quel processo appresi successivamente, quando già ero a Palermo e seppi che il funzionario fu assolto”.
La presunta confidenza di Di Legami a Sinico raccontava anche di una relazione di servizio che attestava la presenza di Contrada in via d’Amelio. Questo documento sarebbe però stato distrutto.
Logica vorrebbe che se, come emerso nei processi, Di Legami non c’entra nulla allora è qualcun altro ad aver dichiarato il falso, ma sul punto poi non si è andato più oltre.
E lo stesso vale per Bruno Contrada il quale ha sempre sostenuto di aver appreso della strage (circa un minuto dopo l’esplosione secondo i tabulati) mentre si trovava in mare aperto a bordo dell’imbarcazione dell’amico Gianni Valentino che ha sempre confermato il suo racconto.
Tornando a parlare delle dichiarazioni di Elmo Di Matteo aveva anche ricordato che questi “disse di aver visto in via d’Amelio, assieme a Contrada, anche Narracci, il Capo centro Sisde di Palermo. Per noi non era un nome qualsiasi perché il suo numero di telefono personale era stato trovato anche in un bigliettino rinvenuto a poche centinaia di metri dal luogo della strage di Capaci. Quando procedemmo con l’individuazione di persona Elmo non lo riconobbe. Quando andai a Palermo seppi che Elmo aveva rilasciato una dichiarazione in cui diceva che in realtà lo aveva riconosciuto ma di non aver verbalizzato il riconoscimento perché indotto da un ufficiale di polizia giudiziaria che era presente in quel giorno”.


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Salvatore Cancemi


Ecco perché, al netto dei depistaggi e delle reticenze che si sono consumate nel corso degli anni, la strage di via d'Amelio è qualcosa di enormemente più complesso rispetto alla questione Scarantino o Mafia-appalti.
Si pensi, ad esempio, a ciò che disse Totò Cancemi.
Quando lo intervistai mi raccontò che sicuramente ebbero un ruolo nella strage i fratelli Graviano, ma in particolare fece riferimento a Salvatore Biondino, ex autista di Riina e capomandamento di San Lorenzo, aggiungendo che questi era in diretto contatto con i Servizi segreti. Cancemi fece intendere senza mezzi termini che Biondino avesse le spalle coperte dai servizi segreti dello Stato italiano per l'esecuzione del delitto.
E' sempre Cancemi ad aver riferito che il Capo dei Capi “era solito ripetere che con quelle azioni criminose avrebbero messo in ginocchio lo Stato e mostrato la loro maggiore forza. E proprio per agevolare la creazione di nuovi contatti politici occorreva eliminare chi come Borsellino avrebbe scoraggiato qualsiasi tentativo di approccio con Cosa nostra e di arretramento nell’attività di contrasto alla mafia”.
Ecco perché è avvenuta la strage di via d’Amelio.
I processi che si sono fin qui celebrati hanno offerto una parte della verità ed è chiaro che la scomparsa dell'agenda rossa sia strettamente legata al depistaggio, al “nodo” dei mandanti esterni. Le sentenze del “Borsellino quater” e del “Borsellino Ter”, non parlano solo di mafia-appalti, ma si affrontano anche questi argomenti.
Un processo, il “Ter” (istruito completamente dal magistrato Nino Di Matteo, assieme ad Anna Maria Palma, e che portò alla condanna di tutti i capi della Commissione provinciale e regionale) in cui emerse, con la deposizione del collaboratore di giustizia Giovanni Brusca, l'esistenza della trattativa Stato-Mafia.
E' sempre in questo processo che si fa riferimento (così come riferiva sempre Cancemi) al dato per cui Riina citava Berlusconi e Dell’Utri come soggetti da appoggiare "ora e in futuro", e rassicurava gli altri componenti della Cupola che fare quella strage sarebbe stato alla lunga "un bene per tutta Cosa nostra".
Da questi elementi proprio Di Matteo, assieme al collega Luca Tescaroli, negli anni successivi proseguì la ricerca della verità sui mandanti esterni nelle stragi con le indagini su Bruno Contrada per concorso in strage o quelle su "Alfa e Beta" (ovvero Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri).
Quegli stessi Dell'Utri e Berlusconi che sono finiti indagati dalla Procura di Firenze (con l'indagine condotta dal procuratore aggiunto Luca Tescaroli, assieme al pm Luca Turco) come mandanti esterni delle stragi del 1993. Berlusconi è deceduto, Dell'Utri ancora no.
Ma è chiaro che in questo momento storico c'è chi vuole chiudere definitivamente una partita.
E colpire e delegittimare i magistrati più impegnati nella ricerca della verità su quanto avvenuto negli anni delle stragi è il primo passo per giungere al definitivo oblio.

(Domani, 5 dicembre, la pubblicazione della seconda parte)

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