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Rosalba Cassarà: "Sulla memoria di Ninni, tranne rari momenti, è sceso un colpevole oblio"

Il 6 agosto del 1985 rimane un giorno senza verità.
Sull'assassinio di Ninni Cassarà, brillante capo della Sezione Investigativa della squadra mobile nonché principale collaboratore di Giovani Falcone e del giovane agente Roberto Antiochia, rimangono diverse domande di cui una cruciale: chi erano (come sospettato nelle sentenze) le talpe che riferirono ai killer i loro movimenti?
Dopo la morte di Beppe Montana, Cassarà aveva capito di essere nel mirino della Cosa Nostra e si era nascosto negli uffici della squadra mobile. Ma il 6 agosto aveva deciso di uscire e fu atteso da quel commando armato di fucili AK-47.
Ricordiamo che la sentenza di primo grado, emessa il 17 febbraio 1995, condannò i principali esponenti della Commissione (Totò Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Bernardo Brusca e Francesco Madonia) all'ergastolo in qualità di mandanti, con sentenza poi confermata nel 1998 dalla Cassazione.
Tuttavia, scrivono i giudici, tra gli esecutori c'era Giovanni Motisi, oggi l’ultimo grande latitante di Cosa nostra, mafioso della famiglia di Pagliarelli e nipote di un altro autorevole padrino di Cosa nostra, Matteo Motisi classe 1918.
Motisi nel 1985 aveva 26 anni, detto "u pacchiuni", il grasso, è latitante dal 1998 e più volte è stato detto che sarebbe morto, ma non vi è alcuna prova.
Lui era soprattutto un fidato killer del gruppo di fuoco scelto da Riina per gli omicidi eccellenti.
Anzelmo, uno dei sicari di Cassarà che successivamente ha deciso di collaborare con le autorità, ha riferito al sostituto procuratore dell'epoca, Gioacchino Natoli, che Motisi prese parte alle riunioni preliminari in vicolo Pipitone. “La prima si tenne ad inizio luglio. L’ordine della commissione presieduta da Riina era di uccidere Cassarà e Montana" Questa direttiva venne poi messa in atto.
Motisi era con Salvatore Biondino (autista di Salvatore Riina), e con Salvatore Biondo detto il “corto”, dentro un furgone quel 6 agosto: si erano sistemati davanti al residence di Cassarà, pronti a colpire, quando la sua auto varcò l’ingresso. Presenti anche Calogero Ganci, Nino Madonia e Francesco Paolo Anzelmo che fecero fuoco appostati nelle scale del palazzo di fronte.
Ma che fine ha fatto?
Come riportato da Salvo Palazzolo su 'Repubblica' alla fine degli anni Novanta venne estromesso da tutti gli incarichi di Cosa nostra su disposizione di Nino Rotolo, uno dei mafiosi più autorevoli del clan.
Eppure, come disse Tommaso Buscetta al giudice Falcone, da Cosa nostra si esce "solo con la morte o collaborando con la giustizia". Ad ogni modo le sue ultime foto furono ritrovate dai carabinieri all’inizio degli anni Duemila, durante una perquisizione a casa dei familiari: lo ritraevano durante una festa con la moglie e i figli. Per gli inquirenti il luogo era una villetta di Casteldaccia. "Nel 1999 - racconta sempre Palazzolo - durante un’altra perquisizione a casa, erano saltati fuori dei pizzini fra il latitante e la moglie, Caterina Pecora: continuavano a fare una vita normale, parlavano del falegname che doveva venire a casa, e del fioraio. Poi, il nulla".
In questi giorni Rosalba Cassarà, sorella di Ninni Cassarà, in una lettera al capo della polizia Vittorio Pisani, pubblicata da Repubblica-Palermo ha ribadito "la pluridecennale latitanza di Giovanni Motisi, pericoloso mafioso responsabile della drammatica fine di mio fratello Antonino (Ninni) Cassarà, vicequestore aggiunto della Polizia di Stato, dell'agente Roberto Antiochia, del commissario Giuseppe (Beppe) Montana e protagonista di altri efferati delitti".  "Constato che sulla memoria di Ninni, tranne rari momenti, è sceso un colpevole oblio! - ha scritto Rosalba Cassarà - Sicuramente non sfugge alla Sua attenzione l'impegno profuso da lui nel redigere il rapporto giudiziario "Michele Greco + 161", né la coraggiosa testimonianza resa al processo per l'eccidio di via Pipitone Federico celebrato nell'aprile del 1984 a Caltanissetta, nel quale perì il coraggioso giudice istruttore Rocco Chinnici. In quel processo Ninni testimoniò che aveva appreso da due magistrati Geraci e Di Pisa che il giudice istruttore aveva deciso di spiccare un mandato di cattura nei confronti di due importanti eminenze grigie della realtà siciliana, gli esattori Nino ed Ignazio Salvo. Il rapporto "Michele Greco + 161", venne elaborato grazie alle indagini condotte da Ninni, con la collaborazione di un piccolo ma efficiente gruppo di investigatori, fortemente motivati dall'entusiasmo per la ricerca della verità del loro capo". "Confido nella Sua sensibilità - prosegue - e attenzione verso un poliziotto che non ha lasciato niente di intentato perché si realizzasse un mondo più bello in cui finalmente trionfi il bene di tutti, rinunciando agli affetti più cari, perché assolutamente consapevole di essere — come disse Ninni al suo amico Paolo Borsellino — 'dei cadaveri che camminano' e Le chiedo con tutta la forza che nasce dall'amore fraterno di assicurare alla giustizia questo efferato criminale".

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